Giovanna Botteri è tra i volti più noti del giornalismo televisivo italiano. Da inviata Rai per il Tg2 e il Tg3 ha seguito il crollo dell'Unione Sovietica, le guerre nell'ex Jugoslavia, la rivolta albanese del 1997 e l'attacco americano all'Iraq, di cui ha ripreso per prima l'inizio, nel 2003. In seguito è stata corrispondente Rai da New York (2007-2019), Pechino (2019-2021) e, da fine 2021, Parigi.
Il prossimo 14 giugno, presso Fondazione Stelline a Milano, Giovanna Botteri sarà una delle relatrici alla conferenza “Raccontare la guerra oggi” organizzata da ilGiornale.it e InsideOver con il patrocinio di Fondazione Stelline. Insieme a Botteri racconteranno le loro esperienze sul campo anche Alberto Negri, Fausto Biloslavo, Marcello Foa e Lucia Goracci, moderati da Fulvio Scaglione. Con lei dialoghiamo sul ruolo dell'informazione nel mondo contemporaneo e sulla deontologia professionale di chi, oggi, racconta la guerra.
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Lei ha visto il mondo dell’informazione sia da inviata che da corrispondente. Come si districa oggi il giornalismo, in un contesto che vede le società moderne sommerse da un diluvio di informazioni la cui veridicità va sempre accertata?
"Parliamo di un grandissimo problema che in questo momento chi fa il nostro lavoro si trova ad affrontare. Qualcuno tra i colleghi dice che il problema cruciale è il fattore tempo: la regola delle redazioni è che le notizie vanno date subito, in poco tempo, prima degli altri. La velocità brucia in diversi casi la necessità di essere veritieri. Si danno notizie senza essere capaci di vagliarle e controllarle. Io credo che il nostro lavoro, che ho fatto da inviata e corrispondente, debba essere quella della tutela del giornalismo sul campo e sul terreno e del ruolo decisivo del giornalista come figura capace di vagliare e processare al meglio le informazioni. È una garanzia riuscire a muoversi e capire, per poterlo raccontare, ciò che succede".
In diversi contesti – e la guerra è l’esempio classico – però ci si trova di fronti a scenari in cui le parti in causa cercano di condizionare ciò che il giornalista vede. Come ci si comporta in questi casi?
"È importante quando si è sul campo anche raccontare ciò che non si vede o si legge nei servizi e testimoniare le limitazioni alle libertà di movimento terreno. Questo è sempre qualcosa di molto importante da ripetere, come forma di prima tutela verso chi legge, ci ascolta, ci segue. È comunque sempre importante essere sul terreno, ma non in cambio dell’abdicazione a ogni deontologia professionali. A tal proposito ricordo la scelta che i media francesi fecero durante la fase più grave della guerra in Algeria tra il governo centrale e il Fronte Islamico di Salvezza. I media, stampa e televisione concordi, presero compattamente la scelta di non coprire il conflitto perché esisteva solo informazione di parte, prodotta viaggiando sotto scorta dell’esercito regolare di Algeri. Tutta la stampa decise di non coprire più l’Algeria per non sottostare a questo ricatto, oggi posto in molti Paesi".
Tra essere “embedded” con delle forze armate ed essere condizionati dalle forze armate stesse spesso passa una linea sottile. Come muoversi in queste circostanze?
"Alle dovute condizioni noi giornalisti dobbiamo esserci. In teatri di guerra anche il giornalismo più irreggimentato può essere il granello che blocca il meccanismo di condizionamento dell’informazione. Ho visto in Iraq molti giornalisti al seguito dell’esercito americano riuscire a testimoniare su molte tematiche, comprese questioni scomode per gli Stati Uniti stessi, in totale libertà. La cosa importante è spiegare e denunciare le condizioni in cui si lavora. Questo per onestà nei confronti di coloro per cui si lavora, ovvero il nostro pubblico. E questo è il caso che vale per il racconto della guerra in Ucraina, dove del resto i giornalisti hanno solo due possibilità di andare al fronte, al seguito di uno dei due eserciti. Ed è un contesto ove l’informazione si muove con sempre più difficoltà e limitazioni".
Del resto, i Paesi in guerra hanno – legittimamente – tutto l’interesse a fare propaganda per la loro causa…
"Assolutamente, e questo vale anche per la guerra russo-ucraina, dove è evidente che entrambe le parti facciano propaganda. L’importante è che chi la racconta ne sia consapevole. E questo non modifica di una virgola la realtà sul conflitto, che vede chiaramente una netta distinzione tra un Paese aggressore e uno aggredito. Noi giornalisti siamo testimoni, né tifosi né attori di parte".
Sul fronte della propaganda interna, Lei ha lavorato e lavora tuttora vicino a centri importanti del potere globale. New York, Parigi, Pechino: nelle sue esperienze ha mai avuto la percezione di sentirsi oggetto di tentativi di influenza propagandistica?
"Sono casi diversi. Francia e Usa sono Paesi democratici, la Cina no. In Cina la propaganda si esplicita in modo molto più grezzo ed evidente, perché non c’è nessun bisogno di fingere che questa non debba esistere. Paradossalmente, proprio per questo motivo la propaganda è più facilmente identificabile. Nei Paesi democratici sono presenti da un lato forme più sottili di propaganda, difficili da identificare, ma dall’altro anche gli anticorpi e gli strumenti per reagire alla propaganda e affrontarla. Mi sono trovata in molti casi del genere. In Cina avevo la possibilità di andare nello Xinjiang, dove vivono gli uiguri, ma ovviamente chiedevo sempre a che condizioni poterlo fare. Ho rinunciato di fronte alla prospettiva che non potevo andarvi se non scortata e con un viaggio organizzato".
Informazione sana vuole anche dire il presupposto per una democrazia sana. Come l’informazione può permettere di dare regole salutari al conflitto di idee che deve esistere nelle società democratiche?
"La cosa che preoccupa me non è tanto il conflitto quanto la modalità. Non amo il confronto urlato da talk show, che non serve allo scambio di idee. Rimpiango i bei tempi in cui si aveva tempo per costruire un servizio e un reportage con tutti i crismi. Erano tempi in cui per portare l’informazione al grande pubblico in maniera utile dovevi lavorare e sviluppare il tutto con attenzione. E un occhio alla complessità di ogni situazione politica o sociale che veniva raccontata".
Un esempio della negazione di questo metodo si è avuto in un contesto che lei segue da vicino, la Francia scossa dalle proteste contro la riforma delle pensioni…
"Quello che colpisce in Francia è il fatto che in Italia fa audience la presenza di scontri, dei black bloc in piazza, le immagini dei lanci di lacrimogeni e delle risse. Al di là di questo, la tematica si perde nella sua interezza. Spesso viene raccontato che la base della protesta è il fatto che con questa riforma i francesi andranno in pensione a 64 anni invece che a 62, mentre il resto d’Europa va mediamente a 66-67 anni. Riguardo la Francia si è parlato molto di scontri e violenza, poco di politica. E anche sulla riforma la realtà è più complessa".
Come stanno le cose a riguardo?
"La Francia ha in Europa il più alto numero di anni richiesti per andare in pensione, che sono generalmente 42-43 anni. A 62 anni, con 42 anni di contributi, andavano pochissime persone in pensione. Di fatto coloro che avevano iniziato a lavorare giovani svolgendo i lavori più usuranti. L’idea che esce dal confronto mediatico nostrano è invece il fatto che in Francia si andasse indistintamente in pensione a 62 anni. Ma la realtà dei fatti è che con questa riforma la Francia ha tolto il concetto di lavoro usurante, unendo coloro che lavorano come spazzini o operai nelle acciaierie e coloro che svolgono professioni come quella di avvocato e notaio nello stesso sistema pensionistico".
Se ne è parlato pochissimo…
"Qualche volta l’informazione è penalizzante nei confronti della concretezza riguardante il dibattito. Qual era la logica valida in molte redazioni sulla situazione in Francia? Di fatto si preferiva scrivere o fare servizi quando in piazza polizia e manifestanti si picchiavano, senza quasi nessun approfondimento sul perché sia divampata una rabbia sociale così grande. E questo a mio avviso segnala la presenza di un’idea deteriore di informazione che, spesso, va di pari passo con una sostanziale sottovalutazione del nostro pubblico.
Ma questo pubblico che ci legge, ci vede, ci ascolta è più intelligente ed esigente di quanto spesso sia considerato nelle redazioni. E bisogna partire da questa concezione per un maggiore rispetto nei suoi confronti e una maggiore sincerità".Partecipa all'evento del 14 giugno "Raccontare la guerra oggi": iscriviti al form
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