Se la violenza domestica è un fatto culturale, allora non si hanno colpe. Le parole messe nero su bianco da un pubblico ministero di Brescia nell’ambito di un procedimento a carico di un uomo del Bangladesh sono destinate a sollevare un polverone. Il cittadino bengalese, in Italia da diversi anni, è accusato di violenze e maltrattamenti nei confronti dell’ex coniuge, 27enne originaria del Paese asiatico ma cittadina italiana, residente a Brescia fin dall’infanzia.
Come riporta La Stampa, il caso ha preso il via nel 2019 quando la donna, madre di due figlie, ha denunciato l’ex marito per maltrattamenti fisici e psicologici. La Procura aveva già chiesto l’archiviazione del procedimento, ma il gip ha ordinato l’imputazione coatta, stabilendo che “sussistono senz’altro elementi idonei a sostenere efficacemente l’accusa in giudizio” nei confronti dello straniero.
Nella richiesta di assoluzione presentata in vista dell’ultimo atto del processo, il pm scrive che “I contegni di compressione delle libertà morali e materiali della parte offesa da parte dell’odierno imputato sono il frutto dell’impianto culturale e non della sua coscienza e volontà di annichilire e svilire la coniuge per conseguire la supremazia sulla medesima”. Insomma, l’uomo è stato cresciuto con la concezione della disparità tra uomo e donna, un’impostazione a cui l’ex moglie ha accettato di sottomettersi. Poco importa che lei sia stata costretta a sposare suo cugino tramite un matrimonio combinato e che sia stata “venduta per 5mila euro” dopo la morte del padre, come ha raccontato in un’intervista al Giornale di Brescia.
“Le condotte dell’uomo sono maturate in un contesto culturale che sebbene inizialmente accettato dalla parte offesa si è rivelato per costei intollerabile proprio perché cresciuta in Italia e con la consapevolezza dei diritti che le appartengono e che l’ha condotta ad interrompere il matrimonio”, continua il pubblico ministero. “Per conformare la sua esistenza a canoni marcatamente occidentali, rifiutando il modo di vivere imposto dalle tradizioni del popolo bengalese e delle quali invece, l’imputato si è fatto fieramente latore”.
La donna si è detta sconcertata. Costretta a lasciare gli studi superiori dopo la maternità e segregata in casa per anni, racconta di aver trovato il coraggio di denunciare “solo nel 2019, dopo anni di urla, insulti e botte, sotto la costante minaccia di essere riportata in Bangladesh definitivamente”. Rivolgendosi alle autorità, lei ha fatto il passo che molte non riescono a compiere. Anche questo, però, potrebbe non essere abbastanza per liberarla dal suo aguzzino.
Un commento sulla vicenda arriva anche dalla politica.
"Se non vogliamo tornare al delitto d'onore sarà bene che i magistrati impegnati nel contrasto alla violenza sulle donne facciano stage obbligatori nei centri antiviolenza", afferma la capogruppo di Alleanza verdi e sinistra alla Camera Luana Zanella. "Chiederò alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio (di cui è segretario) di fare una proposta in tal senso".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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