Affari sì ma solo a fin di bene: l’ultima frontiera della finanza

Cure mediche a prezzi calmierati, case per chi è in difficoltà, microcredito: si chiama "impact investing" e crea profitto cambiando la società

Affari sì ma solo a fin di bene: l’ultima frontiera della finanza

Il palazzo è a Torino, in via Ivrea: un immobile che era delle Poste ed è stato rilevato dal fondo immobiliare della Cassa Depositi e prestiti. Ristrutturato e diviso in piccoli appartamenti, ospita famiglie, spesso madri e padri divorziati con figli, in temporanea difficoltà.

Il modello non è quello delle case popolari, alle quali chi è in situazione di grave disagio accede con le consuete graduatorie gestite dal Comune; gli ospiti di via Ivrea pagano un affitto, sia pure calmierato e al quale sono in grado di fare fronte. La società che gestisce l’immobile, Gastameco, ha come obiettivo quello di fare utili e non fa beneficenza. O almeno non fa beneficenza in senso tradizionale. Gastameco agisce secondo le regole del cosiddetto impact investing: quelle di società, organizzazioni e fondi che, accanto a un ritorno in senso finanziario, si propongono di generare un impatto positivo (concreto e verificabile) dal punto di vista sociale o ambientale.

Nel caso di Gastameco il modello sembra funzionare: dopo l’esordio di Torino la società ha avviato a Venezia e Bologna due pensionati low cost per studenti (che possono trovare alloggio a 70/80 euro al mese) e gestisce anche degli ostelli sempre a prezzi calmierati. Il criterio guida è sempre quello dell’impact investing, una sorta di ircocervo che occupa una casella ben lontana dal tradizionale no-profit e che allo stesso tempo si distingue in modo netto dalla finanza tradizionale.

L’ESEMPIO DI OSLO

Il palazzo di Torino è l’ultimo esempio di una categoria ormai ampia e rilevante, quella degli investimenti socialmente responsabili. Sempre più spesso a imprese, società finanziarie e investitori fare semplicemente i soldi non basta più. Vogliono riuscirci salvaguardando principi etici considerati inviolabili. L’esempio lo dà il fondo sovrano più grande mondo, quello istituito dal governo norvegese per gestire favore delle generazioni future i proventi dell’industria petrolifera locale. I suoi 890 miliardi di dollari di patrimonio non possono essere investiti in una lunga aziende di settori e aziende (dalle armi al tabacco) considerati dannosi per il benessere sociale inteso in senso lato. Allo stesso modo i fondi di investimento cosiddetti etici disponibili sul mercato internazionale sono passati da 170 a 415 nel giro di 10 anni. Il campo più innovativo resta comunque quello degli investimenti in imprese «ad impatto sociale».

A livello internazionale il guru del settore è un finanziere nato in Egitto, naturalizzato britannico e innalzato al rango di baronetto dalla regina Elisabetta, Sir Ronald Cohen. A suo tempo Cohen ha creato Apax Partner, il più grande fondo di venture capital in Gran Bretagna, uno dei più grandi del mondo. Dopo una lunga carriera da «speculatore» ha iniziato a interrogarsi sui limiti del no-profit e sull’esigenza di mettere in collegamento i cosiddetti «imprenditori sociali» con il mercato dei capitali, l’unico strumento in grado di finanziare le loro attività. Ha creato così Bridges Ventures, che attraverso otto fondi gestisce circa 900 milioni di euro dedicati ai «social investment». Tra i suoi fiori all’occhiello una catena di farmacie che forniscono alle comunità disagiate prodotti a basso costo, una società per la prestazioni di servizi di assistenza domiciliare. L’iniziativa più curiosa è quella di Gym Group, una catena di palestre low cost che si rivolgono ai ceti medio-bassi, non in grado di pagare le tariffe dei centri-fitness più alla moda.

In Italia l’equivalente di Sir Cohen è Luciano Balbo, 67 anni, la cui storia appare singolarmente parallela a quella del baronetto britannico. Laureato in Fisica e poi manager del gruppo Techint, Balbo ha portato il private equity nel nostro Paese. Con la sua società, Bs private equity, la prima indipendente del settore in Italia, ha contribuito a far affluire sulle aziende tricolori capitali di fondi internazionali per decine di miliardi di euro. Fino a quando, una decina di anni fa, ha cambiato direzione. «Ho preso un periodo sabbatico e mi è venuta l’idea di far fruttare in altro modo quello che sapevo fare: raccogliere e gestire investimenti». Balbo convince una gruppo di famiglie che aveva conosciuto nel corso della sua attività professionale ad affidargli qualche milione di euro.

Tra gli altri c’erano gli Zambon (farmaceutica), i Seragnoli (macchine per il packaging) e i De Agostini. «L’obiettivo era quello di investire in aziende sostenibili dal punto di vista dei bilanci, ma con ricadute sociali positive. I finanziatori hanno accettato di guadagnare poco, io mi sono impegnato a restituire il capitale che mi avevano versato». Nasce il primo fondo Oltre Venture, con una dotazione di 9 milioni di euro.

CREDITO E SANITÀ

Con i soldi a sua disposizione Balbo ha dato il via a tre iniziative in settori diversi tra loro. Una è la già citata Gastameco (housing sociale), poi c’è Permicro, che si occupa di microcredito. In pochi anni la società, attiva in una ventina di città italiane ha concesso prestiti per circa 80 milioni di euro, divisi in quote al massimo di 10mila euro. Nel Sud della Penisola e chiedere i finanziamenti sono soprattutto italiani, molti i giovani, che ne hanno bisogno per aprire una loro attività, di solito commerciale. Nel Nord invece a ricevere i soldi sono soprattutto immigrati.

Anche in questo caso la motivazione del prestito è legata all’avvio di una impresa o, spesso, a un ricongiungimento familiare. «Le percentuali di mancata restituzione dei soldi sono basse: il 5/6% dei casi», spiega Balbo. «Nel caso dei ricongiungimenti poi si arriva all’1%. Chi porta qui la sua famiglia, gioca tutto sul suo nuovo Paese e non vuole partire col piede sbagliato». Il business sociale forse più interessante tra quelli avviati da Balbo è però quello del Centro medico Santagostino, che offre servizi sanitari low cost. Si tratta di ambulatori medici (sono setto od otto a Milano e uno a Bologna) che sono privati ma per le cui prestazioni si paga l’equivalente del ticket o poco più. «Per disegnare l’attività dei Centri partiamo da un bisogno sociale», racconta Balbo. «Poi però dobbiamo fare i conti e arrivare a un ricavo che ci consenta di stare in piedi».

L’interesse non sta solo nei prezzi ridotti. «La nostra ambizione non è solo quella di essere a buon mercato, ma anche quella di essere bravi. Non vogliamo essere semplicemente più efficienti del pubblico dal punto di vista dei costi, piuttosto esplorare strade, procedure e metodi nuovi». L’anno scorso i pazienti sono stati 100mila con oltre 400mila visite e le prospettive sono quelle di crescere ancora.

IL FUTURO È D’ORO

Visti i risultati Balbo ha deciso di raddoppiare e di creare un nuovo fondo, Oltre Venture 2. È tornato dai soci che lo avevano finanziato.

E alle famiglie della prima tornata si sono aggiunte fondazioni come la Compagnia di Sanpaolo, istituzioni come il Fondo Europeo per gli investimenti, società come Azimut. Dai finanziatori, vecchi e nuovi, ha ottenuto altri 30 milioni di euro per avviare nuove iniziative. «In Italia l’impact investing è solo all’inizio», dice.

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