Ci sono tanti modi per approcciare il caso dell'anarchico Alfredo Cospito. C'è un problema di pericolosità che motiva il regime del 41 bis, legato ai collegamenti che il personaggio ha con i gruppi anarchici non solo italiani, ma di tutta Europa, e dire, per ridicolizzare le accuse, che usava la polvere da sparo dei fuochi d'artificio è una menata. A parte il fatto che ha gambizzato una persona. C'è poi il tema dello Stato, che non può trattare o cedere alle minacce di gruppi eversivi, non può soccombere o farsi mettere in un angolo: una ragione per cui 45 anni fa fu sacrificato Aldo Moro. E c'è anche una questione umanitaria: Cospito non ha ucciso nessuno, è stato condannato a dieci anni di carcere e altri venti in via non definitiva, quindi resterà ancora a lungo dietro le sbarre e un Paese civile, come ha ricordato ieri il Guardasigilli Nordio, ne deve garantire incolumità e salute.
Punti di vista diversi, difficili da coniugare insieme che rendono il caso «controverso», per cui ogni epilogo presenta «pro» e «contro». C'è però un altro aspetto da valutare. Per alcuni versi più politico, su cui il governo dovrebbe interrogarsi. Nell'atteggiamento di Cospito, nei suoi comportamenti, nella caparbietà con cui persegue il suo obiettivo c'è un'ansia di martirio. Non per nulla - a quanto pare - l'anarchico non chiede che il regime di 41 bis sia tolto solo a lui, ma anche agli altri detenuti, terroristi o mafiosi poco importa. In teoria quindi anche a Matteo Messina Denaro. Una richiesta irricevibile.
Cospito, quindi, è mosso dal desiderio di diventare un simbolo. Qualcuno ha fatto il paragone con l'attivista dell'IRA, l'irlandese Bobby Sands, che scelse la strada dello sciopero della fame nel 1981 fino a morirne. Un po' quello che sta facendo Cospito. Anche un epilogo del genere, però, in un modo o nell'altro, si rivelerebbe una sconfitta per lo Stato. Perché nella società della comunicazione, dei media, in un mondo in cui ormai nessuno crede a nulla, il sacrificio, al di là delle ragioni che ci sono dietro, sprigiona un fascino magnetico. Può rivelarsi una miccia in un Paese in cui c'è disagio sociale, in cui c'è una sinistra tradizionale in piena crisi e che addirittura è costretto ad abituarsi ad una guerra.
Ecco perché il governo nelle sue valutazioni deve soppesare con attenzione le conseguenze anche di un epilogo tragico. Le Brigate Rosse si cibarono molto nella loro opera di proselitismo della morte di Mara Cagol, la moglie di Renato Curcio, in uno scontro con i carabinieri. Ne fecero una leggenda. La fine drammatica di Cospito rischierebbe di iniettare nelle menti più deboli il germe del desiderio della ribellione violenta, del gesto dimostrativo, insomma del terrorismo, quel virus infernale che ci ha appestato per decenni.
Il sacrificio è, appunto, la scorciatoia per imporre un modello da emulare. Sono tutti elementi di riflessione per un governo chiamato ad una scelta complessa. Tutti importanti. Nessuno escluso. E tra questi ci deve essere anche la consapevolezza che un simbolo è difficile a morire.
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