Riesplodono le polemiche sui fratelli Savi, condannati all'ergastolo per gli omicidi della famigerata "Uno bianca". Dopo 23 anni di carcere uno di loro, Alberto, ha ottenuto un permesso premio: dodici ore di libertà, dalle 8 alle 20, per far visita ad una località protetta non distante dalla città, in una comunità. Il via libera è stato concesso a fine gennaio dal presidente del Tribunale di Sorveglianza di Padova, Giovanni Maria Pavarin. Alberto Savi, 52 anni, è detenuto nel carcere di Padova. All'epoca dei fatti era poliziotto della questura di Rimini. Insieme ai fratelli maggiori, Roberto (capo della banda e in quel periodo assistente capo della questura di Bologna), e Fabio (artigiano e trasportatore), faceva parte della banda che sconvolse l'Emilia Romagna e le Marche dal 1987 al 1994.
Il semaforo verde al permesso di Savi è arrivato dopo il parere favorevole del team di esperti (psichiatri e psicologi) che ha analizzato le relazioni della polizia penitenziaria e degli operatori del carcere. Savi è risultato un "detenuto modello", impegnato anche in due diverse attività lavorative in carcere. Nel settembre scorso Savi aveva mandato una lettera all'arcivescovo di Bologna, monsignor Matteo Zuppi, per chiedere perdono per quanto fatto. Contro il permesso si era schierata, invece, la procura, presentando un ricorso al via libera dato a dicembre scorso dal giudice di sorveglianza. A Savi nel 2010 era stato negato un permesso per uscire dal carcere.
La carriera criminale di Alberto Savi nella banda iniziò il 19 giugno 1987, con l'assalto al casello autostradale di Pesaro, e finì con l'arresto del 26 novembre 1994. Assieme ai fratelli terrorizzò l'Italia con rapine, sparatorie e omicidi. La banda della Uno Bianca provocò la morte di 24 persone e il ferimento di altre 102, mettendo a segno più di un centinaio di azioni delittuose.
Subito dopo che si è sparsa la voce del permesso premio, è divampata la polemica. La presidente dell'Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna, Simonetta Saliera, ha sottolineato che "fatto salvo il rispetto per le autonome decisioni della autorità competenti, non si può ignorare come la comunità bolognese sia turbata dal riaprirsi di antiche ferite mai rimarginate. Non dobbiamo e non vogliamo dimenticare la violenza, il male, il terrore che la banda della Uno Bianca ha disseminato uccidendo innocenti, arrecando dolore ai parenti delle vittime e violando quei vincoli di lealtà che stanno alla base della nostra democrazia.
A Rosanna Zecchi (presidente dell'associazione familiari vittime della Uno bianca e vedova di Primo Zecchi, ucciso il 6 ottobre 1990 perché stava annotando la targa dell'auto dopo una rapina - e a tutti quelli che hanno sofferto per gli atti criminali della banda della Uno Bianca vanno vicinanza e affetto".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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