Le buone intenzioni, gli errori e l'inferno

Gli spifferi che trasmettono gli umori del Palazzo raccontano di una tentazione che si sta facendo largo nei piani alti del governo: quella di anticipare la riforma che dovrebbe introdurre il premierato in Italia

Le buone intenzioni, gli errori e l'inferno
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Gli spifferi che trasmettono gli umori del Palazzo raccontano di una tentazione che si sta facendo largo nei piani alti del governo: quella di anticipare la riforma che dovrebbe introdurre il premierato in Italia a scapito della tanto agognata riforma della giustizia. La ragione ufficiale è che due riforme costituzionali non si possono incanalare contemporaneamente in Parlamento. Ma se la riforma della giustizia fosse accantonata sarebbe un grave errore.

La ragione per cui bisognerebbe mantenere il vecchio calendario - prima la giustizia, poi la riforma istituzionale - non è nelle menate che raccontano a sinistra, cioè che il premierato priverebbe di poteri o addirittura indurrebbe alle dimissioni l'attuale capo dello Stato: baggianate con il solo scopo di creare le premesse per non far niente. La questione semmai è un'altra e riguarda l'importanza che la riforma della giustizia ricopre dentro e fuori il Paese.

Non sto qui a ricordare che si tratta di una battaglia storica del centrodestra, mi limito a suggerire una riflessione guardando indietro alla Seconda Repubblica: il venir meno ormai da molto tempo di un equilibrio tra i poteri dello Stato e il protagonismo delle Procure più politicizzate ha fatto sì, infatti, che in trent'anni non si facesse non solo la riforma della giustizia, ma nessuna riforma, almeno di quelle che potrebbero cambiare il volto del Paese. Chiunque abbia vissuto questi decenni dovrebbe conoscere il copione a memoria: quando la congiuntura economica non aiuta, nascono i movimenti di piazza, i poteri forti cominciano ad essere insofferenti e il disagio sociale si salda, appunto, con qualche iniziativa giudiziaria che punta a sputtanare un ministro o un premier. Poi, in un baleno, nascono il popolo dei fax o il popolo viola e vengono messi in croce i governi. Ecco perché la riforma della giustizia è la madre di tutte le riforme, perché se non si pone fine a questo meccanismo perverso non si farà nessuna riforma, neppure quella del premierato. Ne sa qualcosa Matteo Renzi.

Di più. Bisogna essere ciechi per non accorgersi che tutte le pedine per mettere in piedi il grande guazzabuglio sono già al loro posto: la Cgil proclama scioperi generali al buio; la Schlein annuncia un autunno caldo e torna a parlare di fascismo; Financial Times, Bloomberg, Cnbc, The Economist si divertono a fare le pulci alla politica del governo. E, come si diceva, la fase economica non è delle più favorevoli, mancano le risorse per varare una manovra di svolta e quindi in prospettiva non saranno pochi gli scontenti. Per mettere in moto l'ingranaggio serve solo il «detonatore» giudiziario. Le avvisaglie comunque già ci sono state: chiedere conferma al ministro Santanchè o al sottosegretario Delmastro.

Sarebbe, quindi, quantomeno opportuno condurre in porto una riforma della giustizia, uno dei punti caratterizzanti del programma del centrodestra e che per di più non costa niente. Anche per spuntare le armi a chi da sempre usa inchieste, rinvii a giudizio e processi per fini politici.

Ci sarebbero, quindi, un mare di ragioni per andare fino in fondo su separazione delle carriere, obbligatorietà dell'azione penale e quant'altro. A meno che qualcuno non pensi di venire a patti con le Procure. Nel quale caso ricordo che la strada dell'inferno è lastricata di buone intenzioni.

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