La criminale benevolenza verso i terroristi rossi

Caro direttore,

la signora «Balzerani Barbara detta Balzarani» - com'era schedata dalle forze di polizia nei primi anni Ottanta, quand'era la Primula Rossa delle Brigate Rosse - può permettersi di dileggiare le vittime dei suoi delitti a causa di un pregiudizio.

È il pregiudizio, positivo, che ha contagiato tanta cultura e tanta informazione: il pregiudizio secondo il quale i terroristi rossi vanno distinti da tutti gli altri perché animati, in fondo, da un nobile fine: una società più giusta, la liberazione degli oppressi, dare a ciascuno secondo il suo bisogno. Sì, certo, hanno ucciso: però avevano in mente un mondo migliore; non si possono mettere sullo stesso piano degli altri terroristi.

Se non si riconosce l'esistenza di questo benevolo pregiudizio, non si spiega come mai solo loro, solo gli ex brigatisti vengono da anni invitati a tenere conferenze e perfino lezioni universitarie; e solo loro vengono intervistati con tanta accondiscendenza. Ha ragione Gabrielli: non si è mai visto un mafioso che viene chiamato, in tv, «dirigente di Cosa Nostra», così come non si è mai visto un bombarolo nero che viene chiamato «responsabile della sezione esplosivi di Ordine Nuovo». Invece loro, gli assassini delle Br, vengono chiamati così, «dirigente della colonna romana delle Brigate Rosse». E perché questa diversità di trattamento, se non per un pregiudizio culturale favorevole?

È lo stesso pregiudizio per cui quelli dei centri sociali, che ieri hanno dato libertà di delirio alla Balzerani, sono considerati bravi ragazzi: mentre i quattro gatti di CasaPound sono un pericolo per la democrazia. Per troppo tempo abbiamo fatto distinzione fra un estremismo buono e un estremismo cattivo; fra un terrorismo grave e un altro, se non buono, meno grave.

Ed è sempre a causa di un simile pregiudizio che in questi giorni abbiamo letto ricostruzioni, diciamo così, «creative» della strage di via Fani e dei 55 giorni di prigionia. C'è chi sostiene (...)

(...) che Moro fu «sicuramente» tenuto prigioniero non nel covo di via Montalcini ma in un condominio dello Ior dove - alla luce del sole - avevano gli uffici la Cia e la Nato, dove abitava un cardinale che era stato nunzio apostolico negli Usa e una giornalista straniera che teneva i contatti con l'Autonomia; in più, subito dopo il delitto in quella casa andò a viverci Prospero Gallinari. Ora io mi chiedo: ma se Moro l'hanno ammazzato il Vaticano e gli Stati Uniti, non facevano prima a rivendicarlo, l'omicidio? Tuttavia non ci sono limiti a un certo «giornalismo d'inchiesta»: così, sempre in questi giorni, abbiamo scoperto che: 1) Moro in via Fani non c'era; 2) non ha mai saputo della strage della sua scorta; 3) alla fine è stato liberato dalle Br e ucciso dai democristiani. E via delirando di questo passo. Ora, vorrei essere chiaro. Che nel caso Moro ci sia più di un'ombra, è un fatto. Che qualcuno abbia preferito un Moro morto a un Moro vivo, è più che possibile: è probabile. Insomma, che ci sia materia oscura è vero: la storia del covo di via Gradoli, ad esempio, è dura da credere. Ma il problema è che con tutti questi «misteri» si vuol sostenere - ultimamente - che la vera matrice del delitto Moro va cercata altrove, che le Brigate Rosse al massimo hanno dato una mano. Insomma, ancora una volta si vuole dire che le Br erano «sedicenti»; marionette, i cui fili erano tirati dalla polizia, dai carabinieri, dagli americani, dai padroni, dai preti. Insomma, ancora una volta si vuole dire che a sinistra «non può» essere nato e cresciuto un terrorismo, perché a sinistra c'è una sorta di esenzione dal peccato originale. Bisognerebbe ricordare, a chi ripropone una controinformazione che tanto somiglia alla vecchia disinformazione, quanto scritto sul Manifesto da Rossana Rossanda in pieno sequestro Moro: e cioè che il linguaggio dei brigatisti era quello dell'album di famiglia.

Ecco, caro direttore, che brutta cosa i pregiudizi: anche quando sono positivi.

Michele Brambilla

*direttore

Gazzetta di Parma

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