Non è facile resistere alla tentazione di prendere subito un aereo per raggiungere Elly Schlein nel suo buen retiro e detergerle il sudore che le imperla la fronte dopo l'enorme fatica di 40 giorni da segretario dem. Non è facile neanche trattenersi dal sarcasmo per quel suo «non mi sono fermata dal 26 febbraio!», che a tanti (anche di sinistra) è sembrato l'ennesimo scivolone di una leader non esattamente stakanovista e non esattamente vicina ai ritmi dei proletari. Se però ci si riesce, in realtà la stanchezza di Elly racconta qualcosa di più profondo.
Venerdì, quando la leader del Pd ha annunciato l'esigenza di prendersi una pausa dopo «mesi complicati», in parecchi sui social l'hanno criticata. Come le è venuto di lamentarsi? Anche se fosse esausta - cosa complicata, ma ognuno è fatto a modo suo - se lo sarebbe dovuta tenere per sé. Così offre ai suoi avversari un assist facilissimo per rimarcare quanto sia disabituata ai carichi di fatica e distante dai lavoratori. Il Pd del salottino, il Pd della ztl, il Pd allergico agli operai, solo un voto al Lingotto alle primarie... Tutto vero. Ma se con quella «pausa» la Schlein stesse coltivando il suo consenso?
La pandemia ha accelerato una tendenza che i sociologi analizzano da anni, ovvero la progressiva perdita di centralità valoriale del lavoro in sé, soprattutto per le nuove generazioni. Sondaggi ne sono stati realizzati a decine, e tutti hanno sottolineato come lo smart working abbia spinto milioni di lavoratori a rivedere le proprie priorità. Persone (elettori) che non sono più disposti a sacrificare tempo libero e familiare in nome del lavoro, che cercano impieghi meno dispendiosi dal punto di vista dell'impegno, che - appunto - rivendicano il diritto a prendersi «pause».
Ora, intendiamoci: lo sfruttamento, il mito dello straordinario che divora vite come Saturno i suoi figli, l'iper-produttività generatrice di stress e burnout, non è un modello perfetto. Imporre limiti per salvaguardare la salute psicofisica dei lavoratori è sacrosanto e gli economisti ne stanno discutendo a fondo. Però la sensazione è che qui si stia andando oltre. Che si stia andando cioè verso un rifiuto del lavoro stesso realizzazione esistenziale e pilastro sociale, avvicinandoci al modello distopico teorizzato da Grillo e Casaleggio, in cui ciascuno dovrebbe ricevere un reddito base universale dallo Stato solo perché esiste e respira.
È un cambio di paradigma e di filosofia rivoluzionario. Finito il tempo del sacrificio e dello «spezzarsi la schiena per portare il pane sulla tavola»: chi lo fa è uno schiavo e un perdente, un boomer che vive per lavorare e non lavora per vivere. Ma siccome (per fortuna) il sistema ancora si basa in larga parte sul senso del dovere e produttività, sempre più giovani lavoratori soffrono. Il 60%, ad esempio, ha sperimentato «disagi emotivi» sul posto di lavoro. È la generazione «fiocchi di neve», fragili e offesi da tutto, dalle richieste del superiore alle pressioni sociali, fino alle parole brutte, sporche e cattive che il politically correct vorrebbe cancellare.
Ed ecco il punto di congiunzione. Elly Schlein è l'espressione più autentica di questa nuova cultura fondata sulla flessibilità, di genere come di impiego. Tutto deve essere soft, la durezza - delle responsabilità, degli uffici, ahimé della vita stessa - è conservatrice e in quanto tale è scorretta, superata. Schlein è la profetessa dei diritti a prescindere dai doveri, logico dunque che in prima persona dia l'esempio: il lavoro non nobilita l'uomo, né la donna, né il trans, né il queer. L'Italia è una Repubblica fondata sulla felicità, o al massimo sul «work-life balance», bisogna ricordarsi di cambiare la Costituzione. E quindi, se per Indro Montanelli lo Stato dava un posto e l'impresa privata un lavoro, Elly fa di meglio: dà un sogno, quello di un futuro rose, fiori e tempi morbidi. Come, concretamente, non è dato saperlo.
Per cui niente ironie, niente paragoni con l'accidioso Oblomov o con il Bartleby di Melville, che quando gli chiedevano di fare qualcosa in ufficio (non al partito...) rispondeva «preferirei di no». La stanchezza di Elly è quella dell'intelligenza astratta di Pessoa, «il peso della consapevolezza del mondo». La sua pausa è un manifesto politico e ha un senso.
Noi rimaniamo fieramente dall'altra parte, quella di chi vede nel lavoro una maniera di mettersi alla prova ed emergere anche a costo di sacrifici, la parte di chi apprezza l'abnegazione. In noi stessi, ma anche nei politici.
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