Domande. Quando ci sarà il vaccino contro il Covid-19, che nelle speranze di Giuseppe Conte dovrebbe essere pronto già per dicembre, con quali soldi il governo comprerà le dosi e finanzierà una campagna di vaccinazione nazionale? Dicono che ci penserà la Ue, ma lo slittamento del Recovery Fund fa sorgere dei dubbi. Ed ancora: a differenza del 2020 quando l'epidemia scoppiò a febbraio, cioè ad un mese dalla primavera, la seconda ondata è iniziata a settembre, quindi, abbiamo davanti 5-6 mesi compreso l'intero inverno - in cui le condizioni climatiche saranno più favorevoli al virus; in più la battaglia non si combatte più nei territori ma ormai casa per casa, dentro le famiglie, con i figli che mettono a rischio padri e nonni; ebbene, con quali risorse il governo pensa di affrontare una guerra così prolungata nel tempo e così complessa, che obbliga ad un rafforzamento della sanità territoriale e delle terapie intensive?
A questi interrogativi Giuseppe Conte, asserragliato nel bunker di Palazzo Chigi, non risponde. Anche perché la risposta più plausibile, più realistica sarebbe il Mes, ma il premier «dimezzato» resterà afono, se non riscoprirà l'orgoglio, fino a quando, a metà novembre, le diverse anime grilline non si chiariranno (e già di fronte a questa tempistica non sai se ridere o piangere). Se poi sposeranno ancora la barriera ideologica contro il Mes, il Paese rischia di affrontare una guerra senza euro contro il virus.
Messa così la situazione è drammatica e paradossale. Anche perché i morsi del Covid-19 si fanno sentire (ieri altri 20mila contagiati) e non più solo al di sopra di quella linea gotica capovolta che divideva nella scorsa primavera le regioni del Nord sotto la bufera e il centro-sud a riparo. No, ora i riferimenti geografici sono saltati e il Sud, con il suo sistema sanitario fatiscente, è ancora più a rischio del Nord: la percentuale di contagio rispetto ai tamponi è più alta in Campania che non in Lombardia (14,4% la prima, 13,2% la seconda); gli ospedali di Napoli sono pieni e, addirittura, a sentire il giornale on line, The Post Internazionale, già ci sono le truffe sui falsi tamponi; in più c'è il rischio di rivolte visto che la Campania, a differenza dell'austera Lombardia, è la patria di Masaniello. Una condizione tragica che ha spinto il governatore, Vincenzo De Luca, a chiedere al premier il lockdown nazionale - corredato dall'avvertimento che lui, comunque, lo farà da solo «in brevissimo tempo, per 30-40 giorni»- e a prendersela con mezzo governo: «Lì dentro ci sono ministri perbene ma anche tangheri e sciacalli». Se ti sposti un pochino al Nord, nella Capitale, la situazione non è diversa. Anzi. L'atmosfera nel Palazzo ne è l'emblema. In una Montecitorio spettrale a mezza bocca ti dicono che il virus si è sparso più di quanto appaia tra deputati, funzionari e commessi. Nella giornata di ieri, un record anche per un venerdì, si è visto un solo deputato, il forzista Maurizio D'Ettore, a parte una capatina veloce di Maurizio Gasparri, senatore, e dell'ex presidente Luciano Violante. «Qui si cagano tutti addosso confida D'Ettore e nessuno fa niente. Ma con quali soldi compreremo il vaccino, quando sarà, se addirittura ci sono dpcm senza copertura, senza nessun intervento di sostegno per le categorie più colpite?!». La situazione non cambia in un Quirinale semi deserto, sotto sanificazione visto che lo chef di Mattarella è risultato positivo al tampone.
E torniamo al Mes. Conte fa lo struzzo, prende tempo. Proprio come a gennaio scorso tergiversava sulla chiusura delle zone rosse in Lombardia. Ma i suoi alleati, in primis Zingaretti e Renzi, temono di essere considerati «complici» dell'inadeguatezza del Premier. E cominciano a stringerlo sempre più d'assedio. L'altro ieri Graziano Delrio, capo dei deputati, lo ha invitato a non ignorare «la rabbia crescente nel Paese». Ieri Zingaretti premuto dalla situazione sempre più complicata del Lazio di cui è governatore ha detto che il Mes è necessario se non indispensabile, regolando i conti con il ministro Gualtieri con cui aveva litigato sul tema («anche lui è d'accordo») e spiegando che non si può stare appresso «alle bandierine ideologiche dei grillini». Renzi, invece, mette sul banco degli imputati la gestione dell'emergenza sulle quattro T: tamponi, tracciabilità, trasporti, terapie intensive. Cioè su tutto. E avverte: «Chiederemo il conto nelle sedi opportune di queste lacune». Un segnale indiretto a Conte, ai ministri, e più diretto al commissario dell'emergenza Domenico Arcuri, ora anche sotto inchiesta: la scorsa settimana secondo il quotidiano Domani di Carlo De Benedetti la Finanza su ordine della Corte dei Conti avrebbe fatto visita a Invitalia per verificare la correttezza dell'aumento di stipendio che Arcuri si è dato come amministratore delegato, quasi triplicandolo rispetto al tetto dei 240mila euro fissato dal governo Renzi per la pubblica amministrazione.
Insomma, Conte è nel mezzo. «Per ora confida Renzi ai suoi io e Zingaretti agiamo in tandem. Vedremo cosa succederà a metà novembre, alla verifica, dopo gli stati generali grillini. Secondo me Conte ha sbagliato a non fissare il confronto nella maggioranza prima». E già, ad un certo punto, il premier dovrà uscire dalla sua torre fortificata e mentre l'epidemia continuerà ad impazzare per il Paese, dovrà decidere una volta per tutte cosa vuol fare di questo benedetto Mes. Anche perché le adesioni all'intergruppo parlamentare sul «Mes subito» si moltiplicano (ora raggiungono i 200 parlamentari): piddini, renziani, a qualche grillino, come pure una nutrita pattuglia di parlamentari forzisti. Se, come probabile, sull'argomento verrà meno un pezzo di «5stelle», ci sarà un'area moderata che darà il suo appoggio, cambiando la natura della maggioranza e probabilmente del governo: sarebbe la risposta più sensata ad un'emergenza epocale, che un esecutivo che può contare solo su una manciata di voti di maggioranza al Senato, che è alle prese con 15 regioni con un colore politico diverso dal suo, che è sotto in tutti i sondaggi, che pensa di risolvere il problema con le acrobazie sul «voto a distanza» in Parlamento di Stefano Ceccanti, pretende di gestire da solo. Spiega Renato Brunetta: «C'è un piano sulla sanità fatto da una persona seria come il ministro Speranza, un passo essenziale per garantire anche la nostra economia, che prevede un investimento poliennale di 65 miliardi di euro, di cui il Mes può coprire 37 miliardi. Per raggiungere questo obiettivo, essenziale per la salvezza nazionale, ci dovrebbe essere una maggioranza di unità nazionale. Una maggioranza che se fosse stata messa in piedi a maggio avrebbe preparato il Paese meglio per affrontare questa tragedia.
Se non tutti vorranno farne parte, allora chi ci sta, ci sta. Berlusconi, per quello che ha sempre detto, ci starebbe. Anche perché il dibattito sul Mes dimostra che non c'è più il centrodestra, come non c'è più il centrosinistra».
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