Piantare un chiodo non è un bell’affare, significa fare un debito di quelli che non si ripagano mai, un impegno gravoso, un peso, un pensiero che non si sconficca dal cervello. Piantare un chiodino, invece, è un gioco da ragazzi. Soprattutto se è di plastica, colorato, ha la testa di varie forme e dimensioni, e va infilato nella tavoletta bianca traforata della Quercetti che in pochi minuti diventa un piccolo quadro, e poi un altro, un altro ancora, e via all’infinito, senza paura di sporcare, di farsi male, di sbagliare.Piantare un chiodino è una faccenda da bambini, ma anche da grandi che vogliono vedere che i piccoli crescono bene: per questo la Quercetti si definisce «fabbrica di giocattoli educativi».
Ne ha 364 nel catalogo, uno per ogni giorno dell’anno. Costruzioni, ottovolanti, lavagne magnetiche, piste a tre dimensioni per biglie, puzzle di legno, ingranaggi, missili e poi chiodini, chiodoni e bottoni, perfino un kit «green» per allestire un orticello sul balcone e giocare al piccolo botanico. L’ultimo arrivato si chiama Pixel art: chiodini più piccoli realizzati nei soli sei colori base che però, combinati e visti a distanza sull’esempio della tecnica adottata dai pittori puntinisti di fine Ottocento, danno vita ad altri colori. Paesaggi, ritratti, opere d’arte, fotografie possono essere riprodotti sulle tavolette bucherellate con sfumature sorprendenti. Uno svago che si trasforma in una cosa seria, un passatempo che sconfina in una curiosa esperienza artistica.Così, nell’era dei tablet e degli schermi touch sempre più piccoli ma sempre meglio definiti, un vecchio gioco semplice, tradizionale, sprovvisto di tastiere e console, senza lo straccio di un minuscolo chip elettronico né di una batteria al litio, vive una seconda, vigorosa giovinezza. Nel 2016 la produzione di chiodini Quercetti è cresciuta del 50 per cento: dalla fabbrica di Torino, unico centro produttivo dell’azienda, ne sono usciti 1,6 miliardi, in media 6 milioni al giorno, con punte che possono raggiungere i 10 milioni. Negli ultimi due anni il numero di chiodini è triplicato. «In oltre 60 anni di storia mai sono stati raggiunti questi livelli», dice Stefano Quercetti, amministratore delegato dell’azienda. Che è rimasta a solida conduzione familiare.
Al vertice con lui siedono i due fratelli Alberto, che è direttore ricerca e sviluppo di nuovi prodotti, e Andrea, direttore vendite estero: l’export in una cinquantina di Paesi, in particolare nell’Unione europea, vale metà del fatturato.I tre fratelli rappresentano la seconda generazione della Quercetti. La prima è quella di loro padre, Alessandro, classe 1920, un aggiustatore della Westinghouse con la passionaccia del volo. Al ritorno dalla guerra, combattuta come aviatore, fu assunto come operaio in una ditta di giocattoli. Nel 1950 si mise in proprio dando vita alla Quercetti & C. Tre anni dopo sviluppò e brevettò i chiodini: all’epoca il gioco era fatto da un disegno guida e una tavoletta di cartone da infilzare con tanti fiammiferi in legno dalla capocchia colorata. Fu un successo planetario che, anno dopo anno, si è moltiplicato e affinato: sono arrivati i chiodini in plastica, di misure diverse, la tavoletta infrangibile e di svariate fogge. Il nome di quest’azienda torinese assurge a sinonimo di gioco che fa crescere.La creatività del fondatore non era una dote isolata. «La sfida della Pixel art è stata affascinante – racconta Stefano Quercetti -: si trattava di traghettare un gioco classico nel mondo di oggi, ma non nella realtà virtuale. I nostri sono giochi che si toccano, si usano, si manipolano. I bambini vengono su nella concretezza, devono poter maneggiare gli oggetti che li appassionano. Il corpo è uno strumento di conoscenza formidabile. Ma con la Pixel art abbiamo conquistato anche un target di interessi trasversali e di età diverse».
Il mercato italiano del giocattolo vale 1,8 miliardi di euro e ha chiuso il 2016 con una crescita del 5 per cento. Per la Quercetti la percentuale dietro il segno «+» è stata del 22 grazie ai chiodini 2.0, privi di elettronica ma carichi di passione: le vendite della Pixel art sono cresciute del 58 per cento rispetto al 2015. Gli Uffizi di Firenze hanno richiesto una linea dedicata ai suoi capolavori acquistabile al bookshop della Galleria, lo stesso ha fatto il Museo egizio di Torino. La casa d’aste Bolaffi ha chiesto un’edizione speciale per celebrare il Penny Black, primo francobollo della storia. Gli investimenti decisi l’anno scorso sono confluiti tutti nell’officina e nel reparto stampaggio di questa linea.Tutto è rigorosamente made in Italy, anzi made in corso Vigevano a Torino. L’intera catena produttiva, dalla progettazione al confezionamento e alla spedizione, è a chilometro zero: non solo la parte creativa (quella non l’aveva esportata nemmeno chi era corso in Romania o a Taiwan), ma anche lo sviluppo, la realizzazione dei prototipi, la costruzione degli stampi, l’ingegnerizzazione dei prodotti e, naturalmente, la fabbricazione. Dalla Cina arriva l’85 per cento delle forniture mondiali di giocattoli e in Cina l’azienda produce per il mercato locale. «Le nostre 30 presse torinesi sono in funzione 24 ore al giorno in tutti i giorni dell’anno - s’inorgoglisce Stefano Quercetti -. Il tessuto industriale italiano è ancora straordinario come l’abilità delle nostre maestranze».
La concorrenza maggiore è straniera. Ma alla Quercetti non pensano di andarsene. «Vogliamo sfruttare il patrimonio di conoscenze e professionalità accumulato. È vero che il sistema Italia non è efficiente, ma l’inefficienza per noi è la molla che ci spinge a essere sempre più efficienti, a non farci risucchiare.
Siamo baricentrici, vicini a mercati importanti, abbiamo capacità ed elasticità produttiva che ci consente di venire rapidamente incontro alle esigenze della clientela». Imprenditori che non si lamentano, questi Quercetti. Sembra proprio un gioco da ragazzi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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