La premessa, d'obbligo, è che l'emergenza Covid ha creato una melassa all'interno della quale tutti i partiti faticano a muoversi secondo le consuete regole d'ingaggio. L'epilogo, dopo due mesi con il Pd che minaccia fuoco e fiamme contro Giuseppe Conte, potrebbe essere quello di un Nicola Zingaretti che finisce come il cane che abbaia alla luna.
È infatti ormai da metà settembre, la settimana prima del referendum confermativo sul taglio dei parlamentari, che i dem hanno deciso di cambiare passo, soprattutto sul fronte della comunicazione. Non che le incomprensioni con il premier non ci siano davvero, anzi. Ma da circa due mesi Zingaretti ha scelto di veicolare un'insofferenza che prima tendeva a rimanere nel chiuso di Palazzo Chigi e delle riunioni riservate tra l'autoproclamato «avvocato del popolo» e i ministri del Pd (dal capo delegazione dem Dario Franceschini a Francesco Boccia).
Così, ormai da tempo, nelle ricostruzioni su agenzie di stampa e quotidiani rimbalza il fastidio del segretario dem che pretende un «cambio di passo» da Conte. Un premier che deve smetterla di «fare il notaio», di essere «un muro di gomma» e tergiversare su tutti i dossier all'ordine del giorno, che si tratti del Mes, del Recovery fund o del capitolo riforme istituzionali. Questione, quest'ultima, che non appassiona granché gli italiani ma che dopo il via libera del Pd al taglio dei parlamentari - battaglia bandiera del M5s - ha comunque una sua importanza strategica. Lo storytelling che arriva da largo del Nazareno, dunque, racconta di un partito in sofferenza e insoddisfatto. Nei tanti spin che sono girati in queste settimane non si è mai usato il termine «ultimatum», ma spesso il senso dei ragionamenti è stato esattamente questo: o Conte cambia passo o salta il banco. Sabato scorso, per dire, seppure buttandola lì quasi fosse un caso, il vicesegretario dem Andrea Orlando ha fatto sapere che prima va scritto «un patto di legislatura per ricostruire» e poi si vedrà «se c'è bisogno di ulteriori energie» al governo. Che, tradotto dal politichese, significa che se non si trova un'intesa sui vari dossier ancora sul tavolo, allora il rimpasto è un'ipotesi concreta. Scenario, questo, che a Conte non può che far venire l'orticaria, visto che - come è noto - quando si apre una crisi di governo si sa dove si inizia ma non dove si finisce. E il presidente del Consiglio è consapevole del fatto di essere anche lui nel mirino e sa bene che l'ombra di Mario Draghi si allunga da mesi su Palazzo Chigi.
Insomma, i ripetuti altolà del Pd a Conte rischiano seriamente di restare lettera morta. È vero che con l'impasse politico-parlamentare dovuta al Covid l'unica arma di pressione che ha Zingaretti è quella della minaccia, ma passati ormai due mesi il segretario dem dà la sensazione di essersi infilato in un vicolo cieco. Per quanto i big del Pd alzino l'asticella e dicano - soprattutto a microfoni spenti - di non poterne più del premier, la verità è che difficilmente arriveranno alle estreme conseguenze di aprire una crisi di governo al buio. Soprattutto finché l'emergenza sanitaria non sarà rientrata. Lo sa bene Conte, che - non a caso - continua a pattinare con grande dimestichezza tra i tanti diktat che gli arrivando dal Pd. Il premier svicola e dribbla senza esporsi davvero su nessun dossier. Un vero e proprio muro di gomma, con buona pace di Zingaretti. Che, andando avanti così, rischia di entrare nello stesso vortice che ha travolto Matteo Salvini nel 2019. Quando ha passato mesi e mesi a lanciare ultimatum a Conte per poi finire all'angolo, costretto in agosto ad aprire una crisi al buio che già il giorno dopo gli era sfuggita di mano.
Un passaggio dal quale il leader della Lega fa ancora fatica a riprendersi. Basti pensare che ieri, finalmente ricevuto da Sergio Mattarella per confrontarsi sul dl Sicurezza, è riuscito a infastidire non poco il Colle per aver «reso pubblico un incontro che per il Quirinale doveva rimanere riservato».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.