Ecco tutti gli errori sulle tre "T" ​che hanno scatenato l'inferno

Pochi reagenti per i tamponi, scarso trattamento domiciliare e tracciamento ancora in fase sperimentale. L'esecutivo non si è mosso in tempo per affrontare l'emergenza coronavirus

Ecco tutti gli errori sulle tre "T" ​che hanno scatenato l'inferno

Pochi reagenti per i tamponi e test sierologici partiti in ritardo, scarso trattamento domiciliare e tracciamento ancora in fase sperimentale. Basterebbero questi elementi per descrivere la strategia delle tre T in cui il Governo ha mostrato i suoi limiti nell'affrontare l'emergenza coronavirus.

Testare

Sui tamponi l’esecutivo non si è mosso in tempo e così le Regioni hanno agito in ordine sparso e già a fine marzo avevano lamentato la mancanza di reagenti. Poi a maggio il governatore lombardo Attilio Fontana ha ribadito come il commissario Arcuri avesse inviato 3,5 milioni di tamponi senza reagenti.

Nello stesso periodo le critiche sono arrivate anche da Confindustria dispositivi medici, che ha denunciato mancanza di organizzazione. Il presidente Massimiliano Boggetti ha spiegato che “se i produttori italiani non hanno l'obbligo di rifornire per prime le strutture del Ssn, finisce che si vende all'estero. Insomma non c'è stata chiarezza sui bisogni e su come approvvigionarsi”. In sostanza, la filiera italiana esiste ma è costretta ad esportare i prodotti fuori dal nostro Paese. Inoltre, Boggetti ha sottolineato come Arcuri abbia contattato Farmindustria e Federchimica, ma in realtà sono le associate Confindustria dispositivi medici a realizzare i reagenti. E guarda caso la richiesta lanciata sul mercato da Arcuri è stata anche frutto del dialogo con Confindustria e le imprese produttrici.

Insomma Arcuri ha cercato di mettere una toppa. E pochi giorni fa ha detto alla Commissione Affari sociali che “l'Italia non fa abbastanza tamponi per tre serie di ragioni”, tra cui quella che “i reagenti sono carenti in tutto il mondo”. Quindi la questione non è ancora risolta.

Il dibattito non è mancato nemmeno sui test sierologici, le analisi per capire quante persone nel nostro Paese abbiano sviluppato gli anticorpi al nuovo coronavirus, anche in assenza di sintomi. L’esecutivo ha agito tardi, tanto è vero che solo il 25 maggio è iniziata l’indagine di sieroprevalenza da parte del Ministero della Salute, dell’Istat e della Croce Rossa Italiana. Nel frattempo le Regioni non sono state ad aspettare. Sei hanno avviato i test. La prima è stata il Veneto il 31 marzo, poi l’Emilia-Romagna dal 3 aprile, la Lombardia dal 23 aprile, Marche e Piemonte dal 4 maggio e il Lazio dall’11 maggio. Tutte le Regioni hanno individuato negli operatori sanitari i destinatari di queste indagini. Altri target sono forze dell'ordine, lavoratori in azienda oppure cittadini.

Torniamo a livello nazionale. A fine aprile Arcuri aveva annunciato che il 4 maggio sarebbero partiti i test a livello nazionale su un campione di 150 mila persone. In realtà non è stato così perché l’ok del governo è arrivato il 10 maggio e poi finalmente lunedì scorso è iniziata l’indagine sierologica in tutta Italia.

Ma i test sono affidabili? Antonio Cassone microbiologo di sanità pubblica, che ha diretto il Dipartimento malattie infettive, parassitarie ed immunomediate dell’Istituto superiore di sanità, sottolinea a ilgiornale.it che “il test dice se una persona ha gli anticorpi contro il virus ma non dice quanti e quali anticorpi sono necessari per essere protetti dal Covid”. Cassone precisa quindi che “non assicurano l’immunità dalla malattia e soprattutto non dicono se una persona può riprendere il virus”.

Trattare

Il microbiologo fa luce anche sul trattamento ospedaliero e domiciliare per affrontare il coronavirus. Evidenzia che “all’inizio dell’epidemia non si è cercato attivamente l’infezione ma si è aspettato che la gente si ammalasse e questo vuol dire andare in ospedale”. Il medico afferma che “è stata fatta una strategia di sorveglianza passiva per cui il controllo del virus si basa sul rilevamento del caso di malattia, non di infezione”. Ma in realtà, come sottolineato da Cassone, i dati hanno dimostrato che l’80% dei soggetti non si ammala gravemente e quindi può rimanere a casa ed essere seguito dal medico di base. Poi il medico ricorda invece che il Veneto ha cercato gli infetti e “ha potuto fare un migliore controllo dei casi attraverso l’isolamento e la quarantena”.

Cassone dice che la strategia nazionale di intervenire sul paziente solo in caso di sintomi gravi è andata avanti per circa un mese, da inizio epidemia fino al 20 marzo. Secondo l’esperto, poi ci si è accorti che la cosa non andava, sono stati fatti molti più tamponi e sono stati trovati molti più casi di infetti non gravi. Basti pensare che “anche in Lombardia c’era più gente a casa che in ospedale come dimostrato dai dati del ministero della Salute”. Il medico sottolinea che “ora siamo arrivati al punto che ci sono molte persone non gravi a casa. Dopo tre mesi si vede molta patologia leggera. Ma ciò non significa che il virus è meno aggressivo”.

Tracciare

Siamo a fine maggio e l’app Immuni per il tracciamento dei contagi da coronavirus è ancora in fase sperimentale. Il viceministro alla Salute Sileri ha annunciato che sarà pronta per i primi di giugno. Dovrebbe essere sperimentata in 6 Regioni ma il Friuli Venezia Giulia ha ritirato la propria disponibilità.

Parlando alle Camere, lo scorso 21 aprile il premier Conte aveva detto che l’app sarebbe stata determinante nella fase 2, mentre Arcuri aveva sottolineato che poteva essere operativa da maggio. In realtà le linee guida del governo sono arrivate a fine aprile. Poi è rimasto tutto fermo. Nel frattempo è cominciata un dibattito politico sulla privacy e sul rapporto tra Stato e cittadino. Inoltre, si è discusso sul fatto che l’app funziona se integrata con il servizio sanitario nazionale. Insomma esistono una serie di problemi dietro alla tecnologia. Ma anche di efficacia come sottolineato da Adolfo Urso, vicepresidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica).

Il senatore di Fratelli d’Italia spiega che Immuni rischia di essere “inefficace” se non rispetta 4 condizioni. Innanzitutto “deve essere fatta il più fretta possibile - precisa Urso a ilgiornale.it -, deve essere scaricata da almeno il 40% dei cittadini, deve essere fatto un numero sufficientemente ampio di tamponi e di test certificati perché altrimenti non si possono mettere i dati nell’app”. Urso evidenzia poi che “deve essere interoperabile con le app degli altri paesi europei, cioè deve comunicare in tempo reale con quella tedesca, francese e così via”.

Il vicepresidente

del Copasir conferma che l’Italia è in ritardo su questa tecnologia e dice che il nostro Paese deve avviare quanto prima “la costruzione di un sistema di app nazionali integrato in un vasto sistema europeo”.

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