Una cosa giusta alla fine Nicola Fratoianni, capo della estrema sinistra e alleato di Elly Schlein, l'ha detta. Riferendosi all'ondeggiamento continuo di Carlo Calenda, gli ha chiesto di decidersi. O di qui o di là. O sta con la sinistra o con la destra. O magari solitario al centro. Ma che si sbrighi e alla fine scelga il fronte da cui sparare le sue innocue pirlate. Fratoianni si riferiva alla partita che si giocherà in Lucania, onde eleggerne il presidente, per la scelta del quale Calenda è furibondo dato che nessuno ha chiesto il suo parere.
Non mi occuperei della vicenda se non fosse perché è esemplare rispetto alla statura politica dell'opposizione nel nostro Paese, e per la rilevanza data sui mass media alla faccenda, che da settimane, in barba alla sua futilità, occupa il dibattito in quell'area detta campo largo o larghissimo, a seconda che essa includa o no il citato Carlo, contraddistinta più che altro dalla ristrettezza delle menti.
Non me ne vogliano gli amici lucani, ma ritengo che del loro futuro e di chi li governerà non si preoccupi nessuno, neppure i sassi di Matera, che lì stanno da secoli, immobili. Invece, misteriosamente, a calamitare anche stavolta l'attenzione è quel minuscolo masso erratico, quel sassolino caduto una quindicina d'anni fa dalla tasca di Pollicino, alias il mio amico Luca Cordero di Montezemolo, e da allora sospinto dai venti mutevoli del suo spiritoso cervello.
Ogni volta Carlo riesce a far credere anzitutto a sé stesso che i propri spostamenti sulla scacchiera di casa sua rovescino gli equilibri del mondo. Il problema è che i giornali e le tivù italiane ne seguono le dichiarazioni pendendo dalle evoluzioni delle sue labbra in questo momento propense a baciare il generale Bardi (Forza Italia, candidato (...)
(...) del centrodestra e appoggiato anche da Italia Viva) e a scansare l'oculista Lacerenza che, proposto a sua insaputa da Schlein e Conte, ha già rifiutato l'incarico.
Confesso che il pariolino de Roma fondatore di «Azione» e affondatore di molte altre cose non mi risulta antipatico. Ha un linguaggio divertente, è propenso a frasi celebri in cui annuncia scelte inamovibili. Poi si sposta subito. Per fermarci all'ultimo mese: prima rifiuta sdegnoso di aderire al campo largo dei progressisti (vedi Sardegna), e si allea al centro con Renzi, facendo fiasco; l'indomani (è il caso dell'Abruzzo) entra nel campo larghissimo, nella parte del tubero che fa scappare a destra il 40 per cento dei suoi elettori, come scrive Pagnoncelli. In entrambi i casi non è stato decisivo: non è riuscito a far perdere la sinistra a Cagliari, né a farla vincere all'Aquila. A Potenza è proteso, ci scommetterei, a proporre una posizione con fantasiosi contorcimenti, degna di un kamasutra della politica. Ma non c'è nulla di attraente per i cittadini comuni, in questi spostamenti progressivi del suo piacere: la Basilicata è la regione che si sta spopolando ogni giorno che passa, le giravolte verbali di Carlo non invertiranno la loro marcia. Ci vorrebbe una buona politica: magari sistemare le strade, costruire le ferrovie, come capitò nell'800 persino nel selvaggio West. Nell'attesa, Calenda produce ghirigori fonetici divertenti per i conduttori televisivi che usano lui come sparring partner sui loro ring fasulli. Il risultato è un incentivo all'astensionismo, dato che mostrano al popolo la fatuità linguacciuta della politica. Con Renzi, con il quale sono cane e gatto, resta il migliore dell'opposizione. Rispetto a Elly e a Conte mille volte preferisco lui, se non altro per inventiva. Ma rappresenta l'opposto di Giorgia Meloni quanto a radicamento nei sentimenti profondi della gente: lei dalla linea diritta, lui dal disegno stortignaccolo, sia pure ammantato di seta, e che non ha mai un traguardo, un punto di certezza, un porto sicuro. In quest'epoca dai valori mollicci e dalle identità fluide la risposta di Calenda al bisogno di solidità sono le sabbie mobili, rappresenta l'Asino di Buridano perennemente in mezzo al guado.
C'è un detto che è arrivato ai nostri giorni dalla cultura classica. «Rimandare alle calende greche». Lo storico Svetonio attribuì questo motteggio all'imperatore Augusto, che ironizzava sui debitori che chiedono la proroga del pagamento ad una data che non esiste. Il primo giorno del mese era denominato «le calende» soltanto a Roma, una data inesistente per gli ateniesi.
Per venire a noi, e alla politica del giorno d'oggi, Carlo è la Calenda Greca, inesistente per gli italiani che non siano della crème. Qualcuno glielo dica: la sua cambiale è andata in protesto. Si decida. Scelga. O di qui o di là. Non che sia determinante, ma almeno farebbe riposare la sua anima tremula. E comincerebbe ad esistere.
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