Lo chiamano «caso Palamara», ma meglio sarebbe chiamarlo «caso giustizia». Il cognome dell'ex potente magistrato al centro di mille intrighi, e ieri radiato dalla categoria, non è infatti sufficiente a definire l'ampiezza della questione. Sarebbe come se Tangentopoli si fosse chiamata, che so, «caso Craxi», come se non esistesse la mafia ma il «caso Totò Riina». Luca Palamara ha commesso più di un errore - lo ammette lui stesso -, ma non lavorava in proprio, non era un cane sciolto, bensì era a capo di un sistema di relazioni che ha retto la magistratura italiana negli ultimi quindici anni. Nomine di procuratori, affidamenti di incarichi, indirizzi politici, tutto passava dalla pregiata ditta Palamara & c. a cui si rivolgeva per avere consigli e facilitazioni il fior fiore delle toghe italiane, come risulta senza ombra di dubbio dagli atti dell'inchiesta in corso.
Adesso tutti fanno finta di niente, hanno fretta di chiudere il «caso Palamara» prima che diventi il «caso giustizia», sperando così di salvarsi. La velocità con cui il Csm, l'organo di autogestione dei magistrati noto per la sua lentezza decisionale quando si tratta di giudicare un togato, la dice lunga sulla paura che serpeggia in quelle stanze (se i magistrati fossero così spediti nel giudicare i cittadini avremmo risolto i problemi della giustizia e buona parte di quelli del Paese).
Ieri è finita la carriera di magistrato di Luca Palamara. Se lo è meritato? Probabilmente sì, il problema è che il plotone di esecuzione è stato armato da molti dei suoi beneficiati. Quindi non c'è stata nessuna purificazione, nessun repulisti. I panni della magistratura restano sporchi allo stesso modo, e un nuovo Palamara probabilmente è già all'opera nell'ombra. Le correnti - anomalia italiana causa dei guai di cui stiamo parlando - non sono infatti state sciolte e, ghigliottinato l'ex capo dei capi, da oggi riprenderanno a combattersi e tramare.
Noi siamo tra i pochi che pensano che questa storia non può essere archiviata con la radiazione del cattivo che paga per tutti.
È una storia ancora da scrivere, serve un'operazione-verità perché abbiamo il diritto di capire che cosa è successo nella giustizia italiana e fino a che punto questa è riuscita a dirottare il regolare corso della politica e della democrazia. E noi ci saremo.
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