«Era ottobre. Avevo appena concluso la mia esperienza alla presidenza di Ubi. Mi hanno chiesto se avessi avuto voglia di candidarmi a sindaco».
Chi glielo ha chiesto?
«Acqua passata, mi piace guardare avanti; a Palazzo Marino c'ero già stata e credo di aver fatto la mia parte per rilanciare Milano e proiettarla in una dimensione internazionale».
Letizia Moratti, vicepresidente della Regione e assessore al Welfare, sorride, seduta alla scrivania del suo ufficio al trentaduesimo piano di Palazzo Lombardia.
Guardiamo avanti, allora: Draghi dove sta portando l'Italia?
«Verso l'Europa. Anche la presidente von der Leyen ha riconosciuto che l'Italia, questa Italia, è un modello per l'Europa. Credo che la considerazione del premier e del Paese nella Ue sia al top».
Lei non rimpiange il governo Conte?
«No, non lo rimpiango. Detto questo, ha la mia comprensione perché si è trovato ad affrontare per primo in Europa la pandemia».
Cosa la convince di Draghi?
«Sta attuando riforme che il centrodestra condivide al cento per cento. L'elenco è lungo e corrisponde ai tanti ritardi dell'Italia. La semplificazione della burocrazia, la concorrenza, la giustizia e i suoi tempi inaccettabili, le politiche del lavoro. Mi sembra che anche sul fisco, il premier nel rispondere al leader del Pd Letta abbia indicato la strada giusta».
Quando gli ha tirato le orecchie, spiegando che non è il momento di tassare, ma di dare soldi ai nostri connazionali.
«Esatto. Se posso semplificare anch'io, direi che quel programma è il nostro programma e, ripeto, quel che serve per spingere l'Italia verso un futuro di benessere».
Cosa la scontenta invece di questo esecutivo?
«Sull'immigrazione e la sicurezza siamo indietro. Su questo versante il governo dovrebbe fare di più».
Come mai Draghi sembra riuscire dove Berlusconi si era inceppato?
«I tempi sono diversi e le condizioni sono forse irripetibili. Dobbiamo cogliere questo momento drammatico e straordinario».
Intanto, il governo di unità nazionale sta cambiando il profilo delle coalizioni. È favorevole al partito unico di centrodestra?
«Io sono d'accordo con l'idea di Berlusconi. Le dico di più: le grandi democrazie in generale hanno pochi partiti, anzi se prendiamo gli Usa ci sono due contenitori che danno stabilità al sistema senza cancellare sfumature e differenze. La semplificazione del quadro politico ci darebbe solidità e farebbe aumentare il peso specifico dell'Italia nel ranking europeo e mondiale. Abbiamo bisogno di unità, questo è un momento particolare nella vita del Paese, stiamo ridefinendo le priorità e, se mi permette, tutti noi con quello che abbiamo passato, abbiamo uno sguardo che va all'essenziale».
Il centrodestra è diviso in cinque o sei formazioni e Fdi è all'opposizione.
«Io non ho la pretesa di dare suggerimenti a nessuno, ma mi pare che gli italiani, e anche i nostri elettori, chiedano chiarezza su pochi contenuti di fondo. Le conflittualità, inevitabili quando ci sono tanti partner in una coalizione, non appassionano nessuno. Dobbiamo intraprendere questo percorso, un passo alla volta, ma penso che si debba andare in quella direzione. E allo stesso ragionamento non può sfuggire il centrosinistra. Di più ancora».
Che altro vede?
«Le riforme sono collegate ad una semplificazione del quadro politico che a sua volta è legata a filo doppio a una semplificazione del quadro istituzionale».
Tradotto in soldoni?
«La lotta alla frammentazione dei blocchi dovrebbe essere accompagnata, se la logica ha un senso, da una legge di impianto maggioritario. Ed è urgente una revisione del processo legislativo, oggi troppo lento e farraginoso, e una rivisitazione della Costituzione, o almeno della seconda parte. Finita la guerra e la dittatura, si disegnò un assetto in cui le responsabilità erano condivise. Comprensibile, ma quel modello ha fatto il suo tempo. Tutto si tiene, se vogliamo spingere l'Italia e colmare i troppi ritardi».
Il centrodestra è in crisi a Milano?
«Il problema delle candidature è trasversale a tutti gli schieramenti. Ma alla fine troveremo la persona giusta».
Lei resta in Regione dove da gennaio ha guidato la difficile battaglia contro la pandemia. Il prossimo obiettivo?
«Stiamo preparando una riforma della sanità che si collega al Recovery plan e siamo la prima regione che va in questa direzione. Puntiamo sulla sanità di prossimità, con gli ospedali di comunità, piccole strutture gestite da infermieri, e con le case di comunità, dove curare i pazienti fragili o cronici, o quelli usciti dalle crisi più acute».
Insomma, la Lombardia riscopre la territorialità e fa tesoro degli errori fatti?
«Diciamo che
dobbiamo migliorare e ce la mettiamo tutta. Ma stiamo anche portando avanti un progetto ambizioso, senza precedenti: un Centro per la ricerca sulle malattie infettive che oggi in Italia non c'è ma di cui abbiamo bisogno».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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