Per settimane abbiamo assistito a primi piani di mani con scritto ddl Zan. Soggetti sconosciuti, semi-conosciuti, noti, falliti e resuscitati si dilettavano nell'arte di colorarsi i palmi. Ddl Zan. Sei lettere diventate una moda per qualcuno, un disegno di legge per altri, un'imitazione o una battaglia esistenziale per altri ancora. Pochi, effettivamente, conoscono gli articoli che compongono il ddl nato su iniziativa del deputato piddino Alessandro Zan. Pochi sanno quanto il ddl sia scivoloso per la libertà d'espressione, che verrà così legata alla discrezionalità del giudice. Pochi ne hanno realmente capito il senso per rendersi conto della infida strumentalizzazione da parte di una determinata parte della società. Il motivo? In Italia, secondo le disposizioni del codice penale, chiunque commetta violenza ai danni di un'altra persona per motivi abietti è punito con una pena aggravata fino a 1/3 in più della pena prevista. La legge c'è, mancano le aggravanti. Non serve introdurre termini quali identità di genere o sesso biologico o anagrafico. Ai ragazzi non serve sapere che "la Repubblica risconosce il giorno 17 maggio quale Giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la biofobia e la trasfobia al fine di promuovere la cultura del rispetto e dell'inclusione".
Fatte queste premesse, viene da pensare che quelle manone sfoggiate con orgoglio non siano una presa di posizione netta contro la violenza che da sempre viene condannata. Piuttosto, quelle manone colorate sono soltanto la moda dell'ultimo momento. Fa figo (ed è inclusivo) scattarsi un selfie con la mano segnata. E così tutti si sono accodati al pensiero unico, a quello che politicamente è più corretto. Ma è così che si lotta per le proprie idee? È così che si pensa di riscattare la comunità Lgbt? Qualcuno pensa di sì. Ecco perché vogliamo rivolgerci proprio a quel "qualcuno" parlando di Saman Abbas.
Il corpo della 18enne pachistana, che voleva vivere all'occidentale, non è ancora stato trovato. Sono passati quasi due mesi e di Saman Abbas non c'è traccia. La sua triste storia è partita un po' sottotraccia: sembrava un allonamento momentaneo di una adolescente in "guerra" con la famiglia. Piano piano le fragili scuse dei genitori hanno iniziato a scricchiolare, finché si è arrivati alla confessione del fratello: "Lo zio l'ha strangolata". Una famiglia di complici che decide di far fuori una ragazzina perché rifiuta un matrimonio combinato perché sarebbe "un disonore, come lo spieghiamo in Pakistan". Perché Saman - nata musulmana - non poteva essere libera di scegliere cosa diventare da grande.
Su Saman si è detto e visto di tutto. E ancora una volta, quella determinata parte della società (quel "qualcuno") non riesce ad ammettere che la Abbas è stata ammazzata perché il fondamentalismo islamico porta anche a questo. Abbiamo sentito donne e uomini di sinistra dire che quello di Saman è stato un femminicidio. No, non è stato così. La 18enne non è stata uccisa dal suo compagno o da suo padre. Saman è stata ammazzata da tutta la famiglia. Dall'esecutore materiale alla "mente" dell'omicidio: tutti hanno voluto uccidere Saman. Pure la madre, che pochi giorni prima le aveva mandato un messaggio per chiederle di tornare a casa.
Il caso di Saman è solo l'ultimo di una lunga serie (in questi anni - purtroppo - la sinistra avrebbe dovuto scarabocchiarsi il corpo più e più volte. Inginocchiarsi come ha fatto in parlamento per la morte di George Floyd o come hanno fatto alcuni calciatori della Nazionale ieri sera per il movimento Black Lives Matter).
Ma perché non è stato fatto? Perché non abbiamo scritto sui nostri palmi "Saman" o "verità per Saman"? Se ragionassimo seguendo il politicamente corretto o le logiche conformiste, avremmo dovuto riempire i social di foto per Saman per sensibilizzare l'opinione pubblica. Perché così non è stato? La sua morte non è una causa abbastanza mediatica da diventare di moda? Forse Saman è un morto scomodo. Ucciso prima dai familiari, poi dall'indifferenza.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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