L' ultima grana che Matteo Renzi ha tirato fuori per mettere Giuseppe Conte su un binario morto sono i suoi rapporti con Donald Trump, l'uomo che lo ribattezzò «Giuseppi». L'aggettivo più gentile usato in proposito è stato «opachi». E da questa asserzione, coniugata con i fatti drammatici di Capitol Hill che hanno gettato l'ex grande amico dell'attuale premier nel limbo dei nemici della democrazia, l'ex premier, che invece vanta un ottimo rapporto con il nuovo inquilino della Casa Bianca, fa derivare una «questione di opportunità» sullo scacchiere italiano. Questione che ieri i suoi uomini hanno gridato ai quattro venti. «Se come dice il Pd osserva Davide Bendinelli, ex azzurro emigrato alla corte renziana Salvini non può andare a Palazzo Chigi perché inviso all'Europa, ugualmente Conte non può restarci perché Washington lo considera un beniamino di quel mezzo golpista di Trump». Ragionamento che ritrovi sulla bocca di Luciano Nobili e di Michele Ansaldi, corredata dal monito: «Conte non può restare lì». E addirittura Renzi si è preso una mezza rivincita su uno degli argomenti su cui è scoppiata questa «crisi» nascosta. «Mi avevano detto si è sfogato con i suoi che la questione della delega ai servizi era solo un problema di poltrone. Invece, ora emerge che riguarda la sicurezza nazionale. Conte è un pericolo».
Il nome di Conte evoca addirittura un problema di sicurezza nazionale. Un iperbole. Appunto, si parla di «rimpasto», Conte ter, ma a guardar bene i ragionamenti, la gravità degli argomenti posti, i temi, se le parole hanno un senso, la questione vera riguarda il nome del premier. Tant'è che già il passare nelle trattative da un argomento all'altro, dal Recovery Fund (dove peraltro le proposte del governo sono fuffa, escamotage contabili) ai Servizi Segreti, dall'organizzazione della campagna di vaccinazione nazionale al Mes, si arguisce che il pomo della discordia è l'identikit di chi dovrebbe garantire che questo accordo monumentale sia attuato o che abbia le capacità per farlo. Quell'identikit nella mente di Renzi non somiglia affatto a Conte. E in fondo anche i ministri più vicini al premier hanno capito l'antifona. «Se il problema ragiona a voce alta il ministro per le Regioni, il piddino Francesco Boccia è il merito, allora si può stilare un patto politico sul programma e su Conte e dopo, magari, affrontare la questione dei nomi dei ministri, anche passando per una crisi. Io non ho parlato con il premier ma si può vedere. Ma se non c'è un patto politico è evidente che Giuseppe (Conte ndr) preferisca giocare la partita nell'aula del Senato, uscire a testa alta e non in sordina. Difendendo la propria immagine per poter far altro un domani».
Tant'è che il premier ha cominciato ad abusare della retorica della responsabilità, tirando fuori argomenti a cui non ha mai prestato particolare attenzione. «Invece di stare appresso a Renzi si è sfogato io dovrei parlare dei vaccini con la Merkel e Putin. O preoccuparmi del fatto che il debito pubblico aumenta di 100 miliardi al mese». Il classico copione nella narrazione di Casalino: lo statista alle prese con le follie della politica italiana. La verità è che Conte è preoccupato. Comincia ad accorgersi, anche se ha paura di dirlo, che gli accadimenti rischiano per lui di aver già varcato il punto di non ritorno. E anche gli altri protagonisti cominciano a prenderne atto: illudersi che lo scontro non riguardi il nome del premier, significa ficcare la testa nella sabbia come gli struzzi. Specie per un personaggio come Renzi che è vissuto sulle rive dell'Arno. Se Grillo cita Cicerone, l'ex premier conosce a memoria gli insegnamenti di messer Machiavelli: «Non si debbe mai lasciare seguire uno disordine per fuggire una guerra, perché non la si fugge, ma si differisce a tuo disavvantaggio». Un consiglio al Principe che si sposa con i ragionamenti che Renzi fa ai suoi nel confessionale. «Se io lasciassi Conte lì ha confidato sarei morto. Dovrei cambiare mestiere, se poi lo farò oggi o fra un anno non fa differenza». Ed ancora: «Se mi va male Conte farà qualcosa per farmela pagare, se mi va bene non si muoverà nulla. Tutto resterà come prima. Anche perché io non posso fare un'altra crisi fra tre mesi».
Ragionamenti che non fanno una grinza e muovono da una logica cartesiana. «Si è tornati a fare politica altro ragionamento fatto dall'ex premier con i suoi dopo due anni. Dalla crisi che portò alla fine del governo Di Maio-Salvini».
La verità è che l'iniziativa per uscire indenne dalla crisi il premier avrebbe dovuto prenderla due mesi fa. Ora forse Renzi non riuscirà a condurre in porto il suo disegno perché le variabili in politica sono infinite (ieri le ipotesi che andavano per la maggiore erano il Conte ter o il passaggio all'opposizione dei renziani), di certo, però, sta facendo di tutto per riuscirci. Tant'è che Palazzo Chigi e il Pd tentano di correre ai ripari. Puntano ad arruolare qualche renziano alla causa di Conte. Ieri l'ex grillina ora passata ad Italia Viva, la senatrice Vono, è stata bombardata di telefonate da Palazzo Chigi e dalla direzione del partito di Zingaretti. Tutte vane. Anche gli strateghi di Conte ammettono che i voti non ci sono: per farsi coraggio dicono che ne mancano tre. «Io non vedo transfughi spiega Paolo Romani, che conosce a menadito le manovre al Senato -: io, Quagliariello e gli altri del gruppo di Toti non ci muoviamo; l'Udc la pensa allo stesso modo. C'è la Mastella e Fantetti che spaccia di averne otto che non ha. Tutti bluffano».
Tanto più che Renzi continua ad interloquire con l'opposizione per costruire una cintura sanitaria che isoli Conte. «Questi non hanno capito spiega il renziano Nobili che non torniamo indietro. Ieri abbiamo saputo che Pd e grillini si sono incontrati sul Recovery Fund. Se le cose stanno così, se c'è una maggioranza di primo cerchio che decide e noi siamo il secondo, si trovino un altro cerchio. Anche perché Conte non va da nessuna parte. Voti non ne trova.
Non c'era riuscito due mesi fa che era forte, figuriamoci adesso. In più l'opposizione, a cominciare da Salvini, questa volta sta giocando davvero bene. A parte la solita Meloni, che si era inventata quella cazzata della mozione di sfiducia che era solo un favore a Conte».
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