Mesi or sono scrissi che il Pd era in crisi di identità, cioè aveva perso l'anima e non ne aveva trovata un'altra. A guardare da spettatore il dibattito congressuale, lo scontro sulle regole e non sui contenuti, il bailamme di nomi per la segreteria con quattro candidati che vista la caratura potrebbero essere anche 10 ma non cambierebbe nulla, si ha la sensazione che la crisi sia più profonda, che il Pd soffra di un vuoto di leadership. Siamo nel nulla perché non c'è un nome che catalizzi l'attenzione, che abbia il carisma per dettare una linea, o indicare una strada ad un partito in piena confusione, o almeno che abbia la capacità di tenerlo tutto insieme.
Non ci è riuscito Enrico Letta, che pure è stato premier e che si è visto contendere la leadership della sinistra da quel «paradosso» che è un avvocato d'affari come Giuseppe Conte, messo a capo di un movimento populista come i grillini. E purtroppo per il Pd tra le figure che sono in campo nel Congresso non c'è qualcuno che possa far meglio. Tant'è che si parla di ticket di nomi, perché nessun candidato basta da solo a rappresentare tutti quei mondi che una volta si riferivano al Pd. E in fondo il dibattito sulle alleanze nasce proprio dall'assenza di una personalità che attragga e dia fiducia a quei pezzi di elettorato piddino che sono finiti tra i grillini, che si sono rifugiati nell'astensione, che sono stati attratti dal riformismo del Terzo polo. Insomma, in questo congresso mancano - sia pure con tutti i loro limiti - personaggi come Matteo Renzi o, tornando ancora più indietro, come Bersani, Veltroni e D'Alema.
O riferimenti per un'intera coalizione come fu Romano Prodi.
Così al congresso rischia di andare in scena la solitudine del Pd, il suo declino. Le ragioni sono tante, ma forse quella che mette insieme la crisi d'identità del partito e l'assenza di leadership riguarda quel meccanismo perverso che ha permesso al Pd di stare al governo per anni senza vincere le elezioni. Il cedimento alla tentazione di affidare le sue fortune più al gioco politico nel Palazzo che non al confronto con la società.
Una sorta di parodia di quel partito-Stato che era stato la Dc. Un'ossessione per il potere che alla fine lo ha consumato, ma soprattutto ha reso superflua la ricerca di una forte leadership. E senza una forte leadership non detti la linea.
Non sarà il Pd a determinare una politica che possa dar vita ad un ampio schieramento, ma il partito diventerà territorio delle scorribande altrui. Soprattutto, c'è il rischio che per garantirsi un'alleanza con i grillini o con il Terzo polo il Pd sia costretto ad accettare, o a subire, l'egemonia degli altri.
Non avendo di fronte una leadership forte, perché su un versante Conte dovrebbe cedere il passo e, sull'altro, Calenda e Renzi accettare il ruolo di secondi? Ecco perché, non me ne vogliano gli interessati, in questo Congresso vedo tanti nomi magari capaci di gestire o di rallentare il declino del Pd, ma non ne vedo uno capace di rilanciarlo.
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