Statisti e ragazzini

Alla fine è dovuto intervenire lo stesso Silvio Berlusconi dall'ospedale San Raffaele per rimettere in carreggiata un'elezione del capo dello Stato che stava per finire fuori dai binari per le intemperanze di leader

Statisti e ragazzini

Alla fine è dovuto intervenire lo stesso Silvio Berlusconi dall'ospedale San Raffaele per rimettere in carreggiata un'elezione del capo dello Stato che stava per finire fuori dai binari per le intemperanze di leader - dice lui stesso usando il tono della paternale - «che si sono dimostrati solo dei ragazzini». Così ieri il Cavaliere non ci ha pensato due volte, con la mentalità dello statista, a fare quella telefonata a Sergio Mattarella per convincerlo a restare al suo posto «dove in sette anni - parole di Berlusconi - ha dimostrato di essere capace di salvaguardare l'unità e gli interessi del Paese».

È la fotografia di questa crisi paradossale: la vecchia guardia che deve intervenire per dipanare una matassa ingarbugliata dalla «nuova», «dai ragazzini». Appunto, con la carestia di leadership di cui soffre la nostra politica l'esito fatalmente non poteva che essere il congelamento dello status quo. La conferma di Sergio Mattarella al Quirinale, che trasforma la sua presidenza in un papato (14 anni non sono pochi), da una parte era l'unica via d'uscita per un Parlamento diviso e nel caos; dall'altra ha dimostrato che ci sono leader deboli, partiti scoppiati e coalizioni che esistono solo sulla carta.

Sono mancati i registi e sono venute meno pure le regole e i rituali della politica, che un tempo svolgevano un ruolo di supplenza quando i capi partito erano in stato confusionale. Oggi, invece, ci sono leader proiettati sul palcoscenico nazionale senza un'adeguata esperienza. E, invece, questa vicenda dimostra che anche la politica richiede una competenza particolare che non si può improvvisare. Basta guardare alle aspirazioni del premier, che si sono scontrate con i dati della realtà e che hanno contribuito non poco a rendere la successione a Mattarella, già complessa, ingovernabile.

Poi ci sono i limiti degli attuali schieramenti. Il centrosinistra non si è neppure messo alla prova. Non ha proposto nomi, ha giocato solo di rimessa. Il tipico «catenaccio». Il centrodestra, invece, ha dato di sé la fotografia spietata di ciò che è attualmente: un sepolcro imbiancato che si reggeva sulla leadership di Silvio Berlusconi. Con lui in disparte, sono venute meno anche le ragioni della coesistenza.

La verità, però, è ancora più complessa. Assistiamo ad una crisi di sistema. Siamo in una condizione spuria. Le attuali coalizioni hanno solo una ragion d'essere: una legge elettorale imperfetta. Stanno insieme non per identità comuni o programmi condivisi, ma in funzione dei seggi elettorali da conquistare. Sono il portato della crisi della nostra politica: drammatica e atavica. Due presidenze della Repubblica che si concludono con il mandato bis, epilogo che lo stesso Mattarella considera una forzatura, sono la quintessenza di un'emergenza istituzionale. Di più: in questa crisi si è teorizzato un presidenzialismo introdotto in maniera surrettizia, immaginando di trasferire con Draghi, senza alcuna riforma ma per prassi, pezzi di potere esecutivo al Quirinale; c'è stato perfino chi ha immaginato di eleggere capo dello Stato l'attuale capo dei servizi segreti. Negli anni '60-'70 operazioni simili sarebbero state giudicate alla stregua di colpi di Stato.

Il problema è che il Paese e il nostro sistema istituzionale sono affamati di riforme: se queste coalizioni non reggono più, c'è da riflettere seriamente sull'introduzione di una legge elettorale proporzionale; se, invece, l'innamoramento per il semi-presidenzialismo non è passeggero, va introdotta, con

le dovute regole e i necessari contrappesi, l'elezione diretta del presidente. Di sicuro non si può più andare avanti così. Confidando solo sulla capacità degli statisti di rimettere insieme i cocci rotti dai «ragazzini».

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