Vita vissuta

Eppur qualcosa si muove. Sarà per le rivelazioni di Luca Palamara, sarà per il discorso di Mattarella, ma qualcosa è uscito dalla palude che inghiotte ogni tentativo di riformare un sistema giudiziario marcio.

Vita vissuta

Eppur qualcosa si muove. Senza scomodare Galileo Galilei, sarà per le rivelazioni di Luca Palamara, sarà per il discorso di Mattarella, sarà per il timore dei referendum, ma qualcosa è uscito dalla palude che inghiotte ogni tentativo di riformare un sistema giudiziario marcio. Si poteva e si dovrà fare molto, molto, e ancora molto di più, specie sulla separazione delle funzioni tra giudici e Pm, sul sistema di elezione del Csm, o, ancora, sulla valutazione di professionalità dei magistrati, ma un passo è stato fatto nella riforma Cartabia. È caduta l'ipocrisia racchiusa nell'espressione da commedia all'italiana «porte girevoli», cioè la possibilità per un magistrato di entrare in politica e poi tornare a giudicare in tribunale. Una vera bestemmia per un sistema come il nostro che si fregia di principi altisonanti del tipo: «Un giudice non solo deve essere imparziale, ma deve apparire tale». Appunto, pura retorica: come può, infatti, essere imparziale chi si spoglia della toga, indossa una maglietta di parte e, poi, di nuovo si mette in toga? Uno si chiede, ma davvero un magistrato, da un seggio in Parlamento, da un ruolo di governo, da un incarico di capo di gabinetto (che è più politico di quello di un deputato o di un consigliere regionale), può tornare tranquillamente a fare il suo vecchio mestiere? Nel Paese di Pulcinella per ora sì.

Poche righe di vita vissuta. Il sottoscritto, assolto in primo grado in un processo, diventato senatore di Forza Italia, fu condannato in appello da un giudice che per 12 anni era stato parlamentare dell'Ulivo e per ben due volte sottosegretario. E in Cassazione quella condanna fu confermata da un magistrato che era stato capo di gabinetto del ministro di Giustizia del governo Prodi. Di più, entrambi - sia il parlamentare-sottosegretario-togato, sia il capo di gabinetto-togato - avevano ricevuto un'altra nomina politica prima di tornare in magistratura: tutti e due erano stati negli Usa a lavorare cinque anni, gomito a gomito, uno come consigliere giuridico dell'ambasciata italiana, l'altro con lo stesso incarico nella delegazione all'Onu. Riattraversarono l'oceano e indossarono di nuovo la toga giusto in tempo per condannare, dall'alto della loro imparzialità, il sottoscritto nei panni dell'avversario politico.

Sull'onda di quella vicenda che fece clamore (il Senato rigettò la richiesta di decadenza prevista dalla legge Severino) fu presentata una legge contro le «porte girevoli». Passò l'esame del Senato, ma finì nello scantinato della Commissione giustizia della Camera. Motivo? Lo scrissi su Il Giornale: la presidente dell'organismo, magistrata e deputata del Pd, voleva usare la «porta girevole» per andare in Cassazione. Lei ,sdegnosamente, disse che non era vero. Ebbene, a legislatura conclusa dov'è finita? Puntualmente con la toga d'ermellino in Cassazione.

Questo per dire che in temi di giustizia non dire gatto se non ce l'hai nel sacco. Questa riforma fa un passo avanti «sulle porte girevoli», mezzo passetto sulla separazione delle funzioni tra giudici e Pm, nulla sul Csm e sulla valutazione dei magistrati: ora bisogna vedere quando e come uscirà dalle aule parlamentari.

Ecco perché i referendum sulla giustizia sono più importanti di ieri: per incalzare il Parlamento e superare le barricate che saranno erette dal cosiddetto «sistema» evocato da Palamara.

Ma, soprattutto, per coprire le lacune che nella riforma Cartabia certo non mancano.

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