Nel cortile di Montecitorio Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa, si schermisce con un altro grillino di governo, il sottosegretario al Mef Alessio Villarosa , sull'ultima operazione condotta in porto, cioè la conferma di Giuseppe Vecchione a capo del Dis, tutta in barba al Pd. «Alla fine ridacchia Tofalo danno la colpa sempre a me. C'entro sempre io». L'altro lo asseconda compiaciuto: «Tofalo non sbaglia mai sui servizi segreti. Tofalo è nei servizi segreti». Quello della nostra «intelligence» è uno degli ultimi capitoli che hanno fatto masticare amaro gli esponenti del Pd. Uno di quei ruoli di potere che Giuseppe Conte gli ha soffiato sotto il naso. Un blitz che ha lasciato perplessi pure forzisti attenti al tema. «Se Zingaretti fosse stato più duro spiega Matteo Perego, azzurro in Commissione Difesa Conte non avrebbe avuto la conferma di Vecchione e attraverso di lui addentellati nella guardia di Finanza e nella magistratura. Solo che Zingaretti non è Berlusconi».
Nel giorno in cui il Cav è tornato ad esercitare la sua egemonia nel centrodestra, costringendo anche Matteo Salvini e Georgia Meloni a votare lo scostamento di bilancio, con quella dose di decisionismo che tutti gli riconoscono nei momenti topici («noi lo votiamo comunque ha comunicato ieri mattina alle 8 ai suoi i nostri alleati facciano quello che vogliono»), è fatale che lo sguardo si rivolga verso quella maggioranza paralizzata dalle follie grilline e da un governo immobile. E nessuno comprende perché mai il segretario del Pd non cambi passo, facendo finta di non vedere il dato che è alla base dell'alleanza: i 5stelle hanno accettato il governo giallorosso solo perché terrorizzati dalle urne e, buona parte di loro, sarebbe disposto a subire qualsiasi forzatura pur di evitare le elezioni anticipate. Invece, per quegli strani giochi della politica in cui si mescolano prudenze eccessive, caratteri inclini alla mediazione esasperata, inspiegabili condizionamenti dell'animo dettati da timori reconditi, sembra che il terrore non alberghi tra i 5stelle, ma nel Pd.
E ieri il paragone tra il decisionismo di Berlusconi e l'indecisione cronica di Zingaretti, ha fatto sorgere una serie di interrogativi all'interno del partito sulle prospettive politiche. Quella frase che spesso esce dalla bocca del segretario nei momenti di maggior attrito con gli alleati di governo («mi batto come un leone») è stata declinata anche dentro il Pd con il paragone con un personaggio di successo di Cartoon Network (per un pelo non ha vinto un Oscar) che andava di moda tra i bambini fino a qualche anno fa: «Leone cane fifone». In realtà quest'ultimo in qualche cartone animato è protagonista anche di qualche atto eroico, invece, finora, se la memoria non inganna, Zingaretti no. «Basterebbe che Nicola osasse un pochino osserva Monica Cirinnà, senatrice del Pd in mezzo ai saloni di Palazzo Madama ma sta fermo. Lui è il Re della palude. Basta guardare alle elezioni di Roma. Io non dico di essere la migliore candidata per il Campidoglio, ma lui decida finalmente. Invece, niente, sta fermo perché è pure pauroso e accarezza la candidatura a sindaco per se stesso, per lasciarsi aperta una via d'uscita in caso di guai. Lo chiameremo sliding doors».
La Cirinnà usa la parola «chiave» per cambiare questa fase: «osare». Rimpasti o cambi di governo possono anche venire, ma tutto parte da lì. «Purtroppo è così se la prende il capogruppo dei senatori, Andrea Marcucci c'è qualcosa in Zingaretti che non scatta. Se fosse scattato non l'avremmo data vinta a Conte non solo sui servizi segreti, ma anche su tante altre cose, perché l'elenco è lungo». Il povero Marcucci ormai non ha più peli sulla lingua: una decina di giorni fa è stato processato per aver detto che ci sono ministri che non vanno. Poi leggi che il ministro Boccia dichiara che «far nascere Gesù bambino due ore prima non è un'eresia», e ti viene il sospetto che il capogruppo sia stato fin troppo cauto.
Già, l'elenco delle incongruenze e degli errori è lungo e la pazienza anche dentro il Pd è agli sgoccioli. Confida Gianni Pittella, altro senatore piddino: «Ormai dentro il partito qualcosa si muove. C'è sempre più gente tra noi che dice questo governo non combina nulla, o, ancora, non possiamo restare appesi a questi qua». «Io sono un berlusconiano scherza il pd siciliano, Fausto Raciti e Zingaretti dovrebbe comportarsi con i grillini come il Cavaliere con la destra. Anche perché andando avanti così il partito rischia di sgonfiarsi come un soufflè».
Un desiderio che serpeggia, sia pure con maggior prudenza, anche tra gli esponenti di governo del partito. Riflette il vice ministro all'Economia, Antonio Misiani, strafelice per l'operazione condotta dal Cav: «Se spingessimo un po' di più come ha fatto Berlusconi a destra, riusciremmo a risolvere anche il problema dell'anima sovranista dei 5stelle. Non avrebbero una via d'uscita. Il Mes? Nessuno paese europeo l'ha chiesto, ma i grillini non possono non dare l'ok sulla riforma del meccanismo, perché altrimenti rischiamo che a Bruxelles ci creino problemi sul Recovery Fund».
Anche fuori dalle mura del Pd tutti aspettano, o sperano, che Leone cane fifone, ruggisca. Sia pure a suo modo. Tanto più che abbozza oggi, abbozza domani, prima o poi il segretario del Pd dovrà tenere il punto. E il momento cruciale si avvicina. «Il 9 dicembre sussurra nel cortile di Montecitorio il renziano Luigi Marattin, con il tono di chi svela il più custodito dei segreti si creerà il meccanismo perfetto sulla riforma del Mes: se tutti i 5stelle voteranno contro, salterà tutto; se, invece, si divideranno, a quel punto ci sarà bisogno di trovare qualcuno che li sostituisca nella maggioranza». Poi guardando verso un gruppo grillini, chiosa: «Questi sono i due soli epiloghi possibili perché quei ragazzini alla Maniero, il Mes, anche se solo la riforma, non lo voteranno mai». Siamo all'idiosincrasia lessicale. «Come fa Conte si domanda Sestino Giacomoni, uno dei consiglieri del Cav a dire che le risorse le abbiamo quando gli ospedali scoppiano?! Sarebbe ora che Zingaretti tirasse fuori le palle».
Quindi, aspettasi ruggito. Inoltre tutti questi movimenti con Forza Italia hanno aumentato i sospetti nella galassia grillina e in un premier sempre a caccia di complotti. Soprattutto colpiscono le congetture a cui si lascia andare la stretta cerchia dei fedelissimi del premier.
Racconta Gianfranco Rotondi, uno degli animatori dell'ipotetico partito di Conte: «A Palazzo Chigi hanno paura che nel colloquio di una settimana fa Di Maio abbia offerto alla Casellati il Quirinale, mentre lui punterebbe a Palazzo Chigi come garante del possibile ingresso di Forza Italia nel governo. Non è uno scherzo».
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