Cerea Enrico, detto Chicco nonostante l’età, nato a Bergamo il 25 maggio del Sessantaquattro, segno zodiacale Gemelli , figlio di Britti Gioconda, poi detta Bruna, e di Vittorio Cerea. Fratelli quattro, Roberto “Bobo”, Francesco, Barbara, Rossella, figli tre: Beatrice, Maria Vittoria, Vittorio, nipoti un tot, anzi tredici, molto più di una famiglia, una brigata, un’impresa, un’azienda, la storia di Bergamo e altro ancora. Sette stelle Michelin in totale, tra Bergamo e Shanghai e St Moritz, awards vari internazionali e nazionali, cappelli, forchette, da mezzo secolo sul podio. Il repertorio classico segnala che da bimbo, Chicco, sia caduto nelle pentole di famiglia, immagine romantica e scontata; c’è un dolcissimo film francese, Al Piccolo Margherita, diretto da Laurent Bénégui, interpretato da Michel Aumont chef e Stéphane Audran moglie, che racconta la storia di un bambino che, dopo aver svuotato una enorme terrina di foie gras, si addormenta su un ceppo di legno nella cantina del ristorante per dare inizio ad una storia romantica e assieme drammatica del Piccolo Margherita, nell’ultimo giorno di chiusura.
Chicco, nome di bambino non cresciuto.
«Enrico era mio nonno, primo marito di Rita. Morì per una sventagliata di mitra durante la guerra in Val Seriana, lui era un postale, credevano fosse una staffetta che portasse munizioni, lo uccisero. Nonna Rita si risposò con Sandro. Gli altri nonni, Paolo e Peppa. Tempi duri, cercarono lavoro in Svizzera, poi a Cervinia, infine presero il bar Orobica a Bergamo, il proprietario dei muri si chiamava Ezio Zanchi, sposò Luisa, sorella di mio padre. Era bellissima, Luisa, stava alla cassa, i clienti maschi si affollavano davanti a lei e perdevano la testa, papà era gelosissimo».
Vittorio, una istituzione per Bergamo e non soltanto.
«Un uomo eccezionale, generoso e duro assieme, non aveva la patente e viaggiava in motocicletta, sul sedile posteriore portava una cesta di frutta e verdura. Aveva un amico, una guardia giurata, munito di autovettura, con la scusa di fare un giro in città lo costringeva a puntare verso la Valtellina, Morbegno, Malgrate, c’era una macelleria importante e poi via verso la Liguria per comprare il pesce».
Lei è l’unico dei cinque figli ad avere visto l’inizio dell’avventura del ristorante.
«Non avevo nemmeno due anni, mamma Bruna e papà rilevarono una trattoria e aprirono il 6 aprile del Sessantasei. Due vetrine su viale Roma, al primo piano c’era il nostro appartamento».
Casa e cucina, insomma.
«I coperchi erano gli scudi, i bastoni delle scope le mie lance. Giocavo sognando chissà che cosa e poi arrivò la scuola. Le suore Sacramentine di Bergamo alle elementari, suor Maria Rita dolcissima, poi le medie dai preti del Sant’Alessandro, don Bellini faceva andar le mani, non con me, ero abbastanza furbetto e veloce. Intanto aiutavo nelle piccole cose al ristorante, finivamo tardissimo, spesso a scuola mi addormentavo sul banco. Infine il liceo linguistico Enrico Fermi. E poi le vacanze in colonia».
Estati memorabili.
«Prego? Val Imagna per cominciare e poi Borgio Verezzi, il gabinetto? Inesistente, si andava in spiaggia, tre assi di legno sul bagnasciuga in riva al mare, le onde fungevano da doccia e pulizie varie».
Al ristorante senza orari.
«Papà non chiudeva mai, era l’unico in tutta Bergamo. Quando pensavi di avere finito la serata arrivavano dal teatro Donizetti, artisti di ogni tipo, attori, cantanti, si faceva l’alba, sempre. Per non dimenticare quello che alle tre di notte bussò perché voleva una zuppa di cozze e papà lo accontentò pure. Vivevo quell’esperienza incredibile, dopo il servizio salivo in casa e preparavo cioccolatini fino alle due, buio e silenzio».
Voglia di dolci, quanto era goloso Chicco?
«Tanto e da sempre. Ho avuto la fortuna di studiare al Richmond di Lucerna, papà era bravissimo in tutto ma non nei dolci se non quelli tradizionali, macedonia col gelato, marrons glacés e zabaione. Dovunque c’era la moda del carrello dei dolci, io trasformai la pasticceria da ristorante, eravamo gli unici a Bergamo».
E i soli a servire il pesce di qualità.
«A Venezia c’erano gli zii, Giulia e Gigi. Giulia pesava un quintale ma sapeva cucinare da dea, pesce soprattutto, e papà prese ad andare per rifornirsi dei migliori crostacei e pesci».
Mai un litigio, tra i fuochi, con papà?
«Sì, scontri, parole, papà era un grande amico ma dovevi fare i conti con lui, era molto duro ma di cuore enorme, mi ha insegnato la vita come lui l’aveva imparata “sul marciapiede”, a tarda sera dovevo pulire le fughe delle piastrelle, l’ultimo a lasciare la cucina, uno sguattero come il comandante di una nave».
Mamma Bruna si innamorò di papà per un cappuccino, gli occhi azzurri di Vittorio valevano una vita. Leggenda?
«No, andò proprio così. La mia storia con Tina, mia moglie, ha avuto un inizio diverso. Io interista, lei milanista, voleva che andassimo in discoteca, io non ho mai ballato in vita mia, figurarsi. Rifiutai ma lei insisteva, io non ero uno da football, semmai sci, tennis, nuoto ma allora venne fuori una sfida, se l’Inter vince il derby non esco, accadde che il Milan le buscò ma io, tosto fino alla fine, si fa per dire, fui costretto a uscire, a ballare dico. Avevo 17 anni, Tina 18. Ci sposammo nel chiostro del convento di Martinengo della Sacra Famiglia. Tre figli, dopo le prime due femmine abbiamo voluto un maschio, il nome poteva essere uno soltanto: Vittorio».
Tre figli come le stelle.
«Le racconto questa. Ero in aereo e leggo su un giornale che “Da Vittorio” ha ottenuto la seconda stella. Pieno di gioia sbarco e telefono a papà, lui ascolta, fa il furbo e mi dice: “Chicco ci hanno tolto la prima stella!”. Conoscevamo entrambi la grande notizia ma facevamo i paraculi».
Vennero giorni improvvisamente grigi.
«La malattia di papà, una nefrite non curata, gli cambiò la vita, era un guerriero, un toro.
Sento la voce di mamma Bruna, Bobo e il resto della Cerea United sono in fermento, coperchi e bastoni delle scope, scudi e lance, sono tornati al loro posto.
Ripenso a don Bellini che faceva andar le mani.
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