Addio a Ray Bradbury Ha immaginato il futuro ma non gli piaceva viverlo

Morto a 91 anni lo scrittore che ha rinnovato la fantascienza. Rifiutava la deriva tecnologica della società: "Sono nato per stare in biblioteca"

Addio a Ray Bradbury Ha immaginato il futuro  ma non gli piaceva viverlo

È morto a 91 anni lo scrittore statunitense Ray Bradbury, autore del capolavoro del 1951 Fahrenheit 451, opera che ispirò l’omonimo film di François Truffaut. Nato nel 1920 in Illinois da genitori di origini svedesi, Bradbury è stato un grande innovatore del genere fantascientifico, oltre che sceneggiatore e autore di racconti polizieschi e noir.

Parlare di Ray Bradbury significa far correre su­bito il pensiero ai suoi due capolavori, Crona­che marziane (1950) e Fahrenheit 451 (1953), anche se lo scrittore, deceduto ieri a Los Angeles a qua­si 92 anni ( li avrebbe compiuti il 22 agosto), ha avuto una carriera più che settantennale (avendo esordi­to a 21 anni nel 1941, su Weird Ta­les ) nel corso della quale ha pubbli­cato storie di tutti i generi, e non so­lo quel particolare tipo di fanta­scienza che a suo tempo si definì «umanistica»,comunque tutte ca­ratterizzate dal suo tocco persona­le, dal suo stile unico, evocativo, dalla singolare aggettivazione che avvolge il lettore senza che se ne ac­corga. Con lui scompare uno degli ulti­mi rappresentanti (è ancora vivo Frederik Pohl, classe 1919) della grande e irripetibile«età d’oro del­la fantascienza». Pochi lo sapeva­no, ma negli ultimi anni era blocca­to su una sedia a rotelle, però conti­nuava a scrivere con regolarità pur se per interposta persona: ogni mattina per tre ore dettava te­lefonicamente alla figlia Alexan­dra, perché non poteva più usare la sua vecchia macchina da scrive­re meccanica a causa di un malan­no al braccio. A suo tempo, negli anni Cin­quanta­Settanta, ciò che colpì di Bra­dbury fu la visione malinconica e tra­gica del destino dell’uomo con­tempo­raneo e futu­ro preda della mas­sificazione totale, dello sradicamen­to dell’Io indivi­duale e della sua personalità, succu­be di una macchi­nificazione della vita, intendendo con questo non solo i marchinge­gni meccanici e robotizzati, ma an­che la virtualità che in America si stava già imponen­do a­metà del Nove­cento, mentre da noi ci si sarebbe ac­corti di tutto que­sto s­oltanto a parti­re dagli anni Ottan­ta con il moltipli­carsi dei canali te­levisivi. Non c’è dunque da meravi­gliarsi che lo scrit­tore nei suoi ultimi interventi pubbli­ci se l­a sia presa con gli aggeggi elet­tronici che hanno invaso la nostra vita e la condizionano. «Abbiamo troppi telefonini. Troppo inter­net. Dobbiamo liberarci di quelle macchine»,ha detto in un’intervi­sta per il suo novantesimo comple­anno al Los Angeles Times . Perché meravigliarsene, come fece a suo tempo qualcuno? È la logica con­seguenza delle critiche che alle «macchine», anche se di altro ge­nere, Bradbury ha fatto in tutte le sue opere e specialmente in Fahrenheit 451 : anche cellulari, iPad,iPod,lettori elettronici,smar­tphone lo sono e producono con­seguenze. Delle chat e di Face­book ha detto: «Perché tanta fatica per chiacchierare con un cretino col quale non vorremmo avere a che fare se fosse in casa nostra?». La sua crociata contro i deficienti e l’incultura risale ai primordi della sua carriera. Un precursore di cer­te critiche oggi comuni, insomma. Tutto sta in quel capolavoro an­tiutopico che è appunto Fahrenheit 451 . Un libro che è l’esaltazione dell’uomo e della cul­tura vera dell’uomo, quella tra­smessa dai libri e non dalle finzio­ni virtuali della televisione. Già nel ’51-53 Bradbury immaginava schermi grandi come una parete e la vita falsa che trasmettevano tra­mite quelle che oggi si chiamano sitcom e vanno avanti per decenni quasi fosse una realtà parallela a quella del telespettatore, o reality show dove la gente comune diven­ta protagonista attiva (tema, que­sto, di molti suoi tragici racconti come il famoso La settima vitti­ma ). È contro la pandemia televisi­va che lo scri­ttore si scaglia in dife­sa di un altro tipo di cultu­ra che questa cercava di sommergere e annulla­re, e non aveva affatto di mira il senatore McCar­thy o una specifica ditta­tura parafascista o para­nazista, come volevano dare a intendere certi cri­tici «impegnati»qui in Ita­lia. Fu lo stesso scrittore, con grande delusione di certi suoi fans, a confer­marlo: nel 2007, sempre inun’intervista al Los An­geles Times , affermò che il suo famoso romanzo non si doveva interpreta­re come una critica alla censura o specificata­mente al senatore McCar­thy, perché era piuttosto una critica alla televisio­ne e al tipo di (in)cultura che essa trasmette. In­somma, Bradbury ce l’aveva e ce l’ha avuta si­no all’ultimo, contro la pseudo- informazione, la pseudo-vita, gli pseu­do- fatti, quelli che Gillo Dorfles ha battezzato «fattoidi», e che sono or­mai la «normalità» delle tv di tutto il mondo, spe­cie in Italia. In un’altra in­tervista ha detto: «I libri e le biblioteche sono dav­vero una parte importan­te della mia vita, perciò l’idea di scrivere Fahrenheit 451 è stata na­turale. Io sono una perso­na n­ata per vivere nelle bi­blioteche ». Scoramento profon­do, quindi, di tutti i suoi lettori e analizzatori progressisti: nessuna motivazione politica e/o ideologica dietro il famoso roman­zo strumentalizzato in tal senso per decenni, anche se, leggendo bene quel che Bradbury scriveva, non era affatto impossibile affer­rarlo. Tanto è vero che spesso, ne­gli Stati Uniti, Bradbury si è plateal­mente irritato quando qualcuno gli voleva spiegare quel che aveva scritto, le sue intenzioni. Come si vede, la tanto apprezzata e sempli­cistica equivalenza fantascienza/ progressista e fantastico/reazio­nario è una solenne sciocchezza, anche se purtroppo ancora qual­cuno ci crede, magari forzando le tesi espresse dagli scrittori nelle lo­ro opere.

Bradbury è sempre stato sostenitore di una cultura umani­stica e ci ha dato una fantascienza di questo genere con veri e propri capolavori: ma non sta scritto da nessuna parte che ciò sia sinoni­mo di progressismo ideologico e politico.

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