Bruciare libri scomodi Un vizio del potere antico quanto Roma

Un'affascinante indagine sulle "biblioteche fantasma" del passato Distrutte o sfigurate dalla censura. Ma ancora vive nella memoria

Bruciare libri scomodi Un vizio del potere antico quanto Roma

Libri viventi. Sono persone che si sono messe in memoria poemi, romanzi, testi religiosi. Non esistono solo in Fahrenheit 451 di Ray Bradbury: scena asfissiante di una società degenerata al punto da legittimare il falò dei libri. Quel grezzo potere genera gli anticorpi, gli eroi ribelli che s'identificano ciascuno con un'opera assimilata fino al midollo, assunta a loro stessa identità. Il latino Seneca ci racconta di uno del suo tempo, ricco di sesterzi, ma scarso d'istruzione e memoria. S'era procurato schiavi greci specializzati: chi aveva caricato Omero, chi i lirici, chi i filosofi. Nei banchetti eleganti, mormoravano all'orecchio del padrone le citazioni. Ma noi sappiamo di ben altri maestri della scrittura mentale. Erano aedi e rapsodi capaci ogni sera di snocciolare un canto diverso, nella polifonia degli esametri formulari, decine di migliaia di versi nell'hard disc della mente. Infallibili juke box dell'epica eroica e divina, abilitati a improvvisare su richiesta. Questi professionisti del ricordo sono gli antidoti a un deficit: tecnico, là dove ancora non esistono penna e calamaio; culturale, quando suppliscono all'ignoranza di un pretenzioso signore; politico, se un regime cieco e oscurantista s'illude di strangolare la libertà degli spiriti.

Il complesso di volumi fantasma è una letteratura carsica, corposa e avvincente come quella emersa. Se ne può scrivere la storia «in negativo», colmando le lacune con un lavorio da detective sui cenni superstiti e sui contesti. Ce ne dà brillante prova Mario Lentano, con La memoria e il potere. Censura intellettuale e roghi di libri nella Roma antica (liberilibri, pagg. 171, euro 16). Gli incendi cartacei fiammeggiano già nella Bibbia. Il dissidente Geremia dettò a Baruc le sue acide profezie, a discapito della casata reale di Giuda, rea di iniquità. Ioiachim, allora sul trono, esercitò la sua sbrigativa censura: smembrò il papiro con il temperino da scriba, alimentando il camino del suo palazzo d'inverno. Risultato? Il coriaceo profeta compilò un nuovo rotolo, rincarando la dose. C'è perfino chi ipotizza che i poemi ancestrali, Iliade e Odissea, siano sorti dalle ceneri di altre canzoni di gesta, composte da vati troiani annichiliti dalla sconfitta. Sarebbero racconti rettificati dai vincitori, che spogliarono i vinti non solo dei beni materiali, ma anche del genio compositivo.

La storia di Roma è una successione di poteri forti. I governi muscolari hanno la passione del bavaglio, silenziare l'opposizione è pratica comune. Lentano ne descrive le tappe. Incendi, cancellazioni e stravolgimenti si susseguono. I primi atti, in stile romano antico, si ammantano di sacralità cerimoniale. I libri fuori dal coro finiscono in un olocausto pubblico, per ordine del pretore, massima autorità civile in epoca repubblicana, ma con tanto di sacerdoti in pompa magna e litanie riparatorie. Accadde con gli enigmatici «papiri di Numa», un deposito di testi interrati da agitatori falsari sul Gianicolo, accanto al supposto sarcofago del primo, leggendario successore di re Romolo. Tramandavano precetti greci, considerati sovversivi della moralità e dell'ideologia istituzionale. Era nota la simpatia di Numa per Pitagora e per le sue astruse dottrine, vietate ai profani. Da qui l'idea, proposta da Lentano, che la misteriosa biblioteca sepolta fosse infarcita di aforismi pitagorici. Erano testi sgraditi ai vertici di governo del tempo, una classe senatoriale conservatrice e refrattaria a tutto ciò che odorasse di ellenico. Chi li aveva celati accanto al simulacro di Numa non poteva che essere un nemico dello stato, e il suo messaggio deviante era il candidato perfetto al primo rogo di libri della storia romana.

In età imperiale il patibolo delle pagine diventò laico. Difesi dalla «legge di lesa maestà», i principi facevano giustizia sommaria del dissenso, condannando a morte gli scritti sospetti. L'esecuzione avveniva nel Foro e ai Comizi. Esecutori erano i triumviri. Si era dissolta l'aura religiosa. La vittima più clamorosa fu Cremuzio Cordo, uno storico che osò, sotto Tiberio, celebrare l'indipendenza dell'individuo, secondo le indicazioni dello stoicismo, la sua fede filosofica. Nulla è rimasto dei suoi Annali, arsi in piazza, se non il vibrante ricordo del libertario Tacito. Imperatori più concilianti praticavano la revisione chirurgica.

Augusto impose a Virgilio, suo poeta di corte, di sterilizzare il finale delle Georgiche, sostituendo la lode di Cornelio Gallo, poeta, ma anche politico inviso, con un'asettica celebrazione del mitico Orfeo. Roma insegna che bruciare libri o ispirazioni non rende. Noi abbiamo, come rimarca Tacito, il potere di tacere, ma non quello di dimenticare.

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