Chi in questi giorni abbia seguito i servizi da Montecitorio sui vari canali televisivi - e soprattutto su Rai News 24 e su Rai Tre - si è sentito umiliato, come cittadino e come uomo abituato a pensare con la propria testa, nel riascoltare la vecchia, immarcescibile, contrapposizione del paese reale al paese legale e la pretesa sordità del secondo ai valori profondi del primo. Bastano centomila fax a favore di Emma Bonino for President per far dire ai giornalisti della Rai o di La7 che il popolo italiano non condivide le scelte della sua classe dirigente e chiede volti nuovi (anche se sono quelli di una professionista politica sulla scena da trentasette anni). Una manifestazione davanti a Montecitorio di Sel, dei grillini, di militanti del Pd, che minacciano di bruciare le tessere, è sufficiente per fare di Stefano Rodotà («il nuovo che avanza»: classe 1933, in politica almeno dal 1976!) l'espressione di un'opinione pubblica illuminata e responsabile che vuole «voltar pagina» ed essere governata da quel partito delle persone oneste oggetto della feroce ironia di Benedetto Croce.
Le cause che spiegano il passaggio dalla «tirannia della maggioranza» temuta dai liberali dell'Ottocento all'odierna dittatura telematica della minoranza vanno ricercate anche - e soprattutto - in una cultura politica che, lungi dall'ubbriacarsene, del vino liberaldemocratico non ha bevuto neppure un sorso. Nella Democrazia in America (1835), Tocqueville aveva già capito tutto. Per i democratici illiberali, scriveva, «la democrazia non è il governo della maggioranza, è il governo di coloro che si fanno garanti e interpreti della maggioranza». L'aristocratico normanno non poteva prevedere che, in una società di massa, l'élite, interprete autorizzata - per virtù e competenza - dell'interesse collettivo, avrebbe inalberato la bandiera della partecipazione aperta a tutti, insegnando alle giovani generazioni, con Giorgio Gaber, che: «La libertà non è star sopra un albero,/non è neanche avere un'opinione,/la libertà non è uno spazio libero,/libertà è partecipazione». Il diritto a far parte delle «minoranze eroiche» che, dal Risorgimento alla Resistenza, passando per il fascismo, hanno segnato la storia della nazione è diventato, per così dire, un «diritto sociale»,che non si può negare a nessuno e che la rete ha messo alla portata anche di quanti non sempre possono raggiungere le «piazze» o fare i sit in dinanzi ai simboli del potere.
Nella partecipazione si verifica un paradosso che non era sfuggito ad Augustin Cochin, lo storico tradizionalista della Rivoluzione: «Il segreto dell'unione, le leggi del progresso sono nel fatto stesso dell'associazione. Il corpo, la società del pensiero, incoraggia e sviluppa l'anima, le convinzioni comuni. Qui è la chiesa che precede e crea il proprio vangelo. La rigenerazione, il progresso dei lumi, è un fenomeno sociale, non morale o intellettuale». Insomma, la partecipazione per la partecipazione, la partecipazione come alfa e omega della legittimità politica. Ne deriva che la democrazia, posta dal liberale Benjamin Constant al servizio della libertà e dei diritti civili, è diventata il fine che ha retrocesso la libertà a mezzo: chi ha qualcosa da dire, venga a dirlo in quell'eterna assemblea permanente che libertari laicisti, grillini, ecostalinisti, centri sociali tengono sempre dischiusa.
Confronto e trasparenza sono - come, del resto, erano già stati nei Club giacobini - doveri ineludibili.
Le minoranze rumorose vedono nelle maggioranze silenziose l'ipocrisia borghese, la vigliaccheria, il perseguimento del proprio «particulare», il privato come carapace per sottrarsi agli sguardi del pubblico: un solo fax per la Bonino presidente, in quest'ottica, vale più di centomila schede di quanti non le darebbero mai il voto ma si fanno i fatti loro e, nel segreto dell'urna, danno la pugnalata alla funzionaria dell'Umanità.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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