Il Comandante della nave è un ruolo individuale di potere assoluto: “A bordo prima Dio e poi io” è quanto dicono di sé questi semidei che paiono usciti dalle pagine di Omero.
A loro non è permesso abbandonare la nave in caso di naufragio finchè non sia stato sbarcato fino all’ultimo uomo; non si tratta solo della semplice osservanza di una norma, prevista da tutti i codici della navigazione, ma di una questione d’onore non negoziabile, trasgredirla significa violare un intimo giuramento di fedeltà che li ha segnati per sempre.
Il Comandante quindi può morire con la sua nave la cui perdita vive come un fallimento personale; ma il rischio grave nel sopravviverle è che ciò può essere giudicato un atto di codardia, a prescindere dalle reali circostanze dell'affondamento. Molti, piuttosto che subire quest'onta, preferirono colare a picco, come Samurai sconfitti che decidevano di uccidersi per non essere disonorati.
Il comandante a bordo è papa e re, può celebrare matrimoni e funerali, arrestare e confinare equipaggio e passeggeri in cabina, può decidere di sacrificare parte del carico, può persino ipotecare la nave senza il consenso del suo armatore che ha la facoltà di sbarcarlo in qualsiasi momento; deve essere portato alla diplomazia perché fa gli interessi della compagnia e al tempo stesso conosce e rispetta le leggi marittime internazionali.
Il mare ha scritto le sue leggi nella storia, sulla carta e sulle onde, con parole che ognuno conosce e che fin da bambina sentivo cariche di magia. Nell’isola dove vivo sono tutti marinai dalla notte dei tempi, oggi molti di loro comandano le navi più importanti del mondo.
Mio nonno, Leonardo Pescarolo, l’eroe e il migliore amico della mia infanzia, era un importante Commissario delle grandi navi passeggeri della prima metà del novecento, l’orgoglio della marina italiana, le cosidette città galleggianti.
Negli ultimi anni di guerra si ritagliò un suo ruolo da pacifista convinto, comandando con successo le missioni della Croce Rossa perché, grazie alle sue doti diplomatiche, poteva passare facilmente Gibilterra con le “sue” navi, avendo conquistato negli anni la totale fiducia del Comando inglese. Andava a recuperare i civili italiani dall’Africa Orientale, ormai caduta in mani nemiche, per condurli al grande ospedale di Taranto gestito dalla CRI e divenuto anche centro di smistamento. In questi viaggi percorreva due volte il periplo dell’Africa, una distanza equivalente al giro del mondo.
Aveva appena passato Gibilterra nel ’43, di ritorno dal suo ultimo viaggio, quando apprese che la guerra infuriava nell’Adriatico, infestato da bombardieri e sottomarini alleati ormai vittoriosi. Il Comandante Pescarolo doveva, appena sbarcati i profughi, proseguire per Trieste e riconsegnare all’armatore le sue quattro immense navi passeggeri, se non lo faceva la nostra marina militare le avrebbe subito affondate per non consegnarle al nemico.
Non ci fu verso di dissuaderlo. Ritto sul ponte in uno scenario infernale, con le navi governate da pochi volontari riuscì miracolosamente a compiere la sua missione.
Mio nonno fu un uomo molto fortunato, il suo ultimo viaggio prima della pensione fu sull’Andrea Doria, la più bella, la più sicura delle grandi navi italiane, costruita nel 1950, un simbolo dell’Italia che rinasceva. Nel viaggio successivo questo capolavoro della cantieristica italiana fu investito nella nebbia al largo del Massachusset da una motonave svedese, la Stokholm, che la squarciò in tutta la sua lunghezza con la sua prua rompighiaccio. Morirono 46 dei 1706 passeggeri. Il bravissimo comandante Piero Calamai aveva alle spalle quarant’anni di navigazione e fu costretto dai suoi ufficiali a lasciare la nave, gli dissero che altrimenti sarebbero rimasti anche loro a morire con lui. Ma la figlia racconta che quando, vent’anni dopo il disastro, venne il momento per lui di lasciare questo mondo, le sue ultime parole furono dedicate all’equipaggio dell’Andrea Doria, volle la conferma che tutti si fossero davvero salvati, solo così poteva riposare in pace.
Per le leggi del mare la responsabilità del Comandante non è solo verso la sua nave, egli ha l’obbligo morale e giuridico di intervenire anche verso qualunque altra che si trovi in pericolo.
Ma a volte non basta.
Il 5 giugno 1965 il Comandante Lazzaro Parodi di 38 anni staccò dalla banchina la petroliera “Luisa” e la portò fuori delle installazioni petrolifere di Bandar Mashour, dopo che un’esplosione a bordo minacciava una vera, enorme catastrofe nel porto e a terra se la nave fosse rimasta ancorata.
Parodi restò calmo, comprese subito il da farsi e seppe che l’equipaggio gli avrebbe obbedito quando impose di prendere il largo a tutta velocità con la petroliera in fiamme per non propagare l’incendio.
La “Luisa” esplose ormai fuori dai terminali di carico portandosi via le vite del Comandante e di altri 40 marinai, solo così migliaia di altre vite si salvarono e si evitarono incalcolabili danni.
Cosa può aver provato Parodi quando dava gli ordini per allontanarsi dai terminal, e quanto avrebbe voluto avere qualche minuto in più per far abbandonare la nave da tutti i suoi uomini salvandoli da morte certa?
Ma il tempo non l’aveva.
La preparazione e la formazione mentale di un bravo comandante è questa.
Il Comandante ama la sua nave, il suo corpo fisico è per lui cosa viva, con un nome e un’anima. E’ lei a rassicuralo, a dargli calore, a portarlo in seno nelle condizioni più estreme del mare e dei venti, è con lei che parla nelle lunghe ore di navigazione di notte nella solitudine della plancia di comando.
Non solo per questo non vuole abbandonarla ma loro destini sono legati.
Se il Comandante perde la propria nave nessuno più lo arruolerà, la sua carriera è finita e nel suo io sente di aver tradito, per stanchezza o per eccessiva fiducia in se stesso quella simbolica unione. I laceranti rumori che dall'opera viva salgono al ponte hanno toni di sconfitta che talvolta fanno preferire la morte.
Il Comandante deve prepararsi al momento terribile dell'emergenza assoluta, della decisione rapida e inconfutabile.
La conquista di questa virtù ha bisogno di essere temprata dall'allenamento e dalla volontà, dall’inseguire tutti i giorni una costante familiarità con il bene.
Si comincia sui banchi dell’Istituto Nautico fino a diventare allievo ufficiale per proseguire avanti verso una lunga trafila costellata di altri studi, esami, imbarchi e passaggi di grado. Ma anche così si diventa Comandante solo nel caso che i superiori riconoscano nell’ufficiale le caratteristiche necessarie e dopo lunghi anni di navigazione nei quali si impara a conoscere il mare ma soprattutto se stessi, dove si misurano le proprie capacità, l’equilibrio e la consapevolezza del proprio ruolo al di là che si navighi a bordo di una grande nave da crociera o di una petroliera, di una nave mercantile o militare.
La nave da carico Marina D’Equa affondò in pieno oceano a 300 miglia da Brest con il suo carico di matalli pesanti nel 1981. C’erano onde di 11 metri e mare forza dieci, il naufragio fu causato dal crollo delle paratie della stiva. Non era stato il Comandante Michele Massa a posizionare il carico ma l’ufficio di terra della compagnia come oggi si usa nel 90% dei casi. Ma fu il lui ad essere costretto a decidere di non lasciare la nave sperando nei soccorsi perché sapeva che in quelle condizioni del tempo sarebbero andati tutti incontro a morte certa. La Marina D’Equa affondò in poco più di un’ora, morirono tutti i trenta uomini d’equipaggio, il più giovane aveva 17 anni.
Oggi il potere del Comandante è più limitato, la divisione del lavoro e la tecnologia limita i suoi compiti e la sindacalizzazione degli uomini ne condiziona il mestiere ma quando si tratta di prendere decisioni definitive e spesso drammatiche si trova ancora una volta ad essere solo.
Il concetto di preparazione lenta e faticosa al posto di responsabilità oggi è diventato piuttosto impopolare; non solo per i capitani delle navi ma anche per gli economisti, gli operatori di borsa, i medici, forse per tutte le categorie.
Un Comandante dipinto dalla stampa come ignorante e presuntuoso che scappa prima degli altri fa orrore e paura perché, dato il fascino antico del quale la sua figura è circonfusa, ci mette drammaticamente davanti alla constatazione di quanto poco siamo pronti alla responsabilità e al sacrificio individuale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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