Così Erofeev si è bevuto i soviet nel libro vietato per immoralità

Paura e disgusto nella Mosca degli Anni Sessanta tra vagabondaggi alcolici e censura

Un'affollata stazione della metropolitana di Mosca
Un'affollata stazione della metropolitana di Mosca

«Tutti dicono: il Cremlino, il Cremlino. Con tutto quello che ne ho sentito dire, non l'ho mai visto. Quante volte ormai (mille volte), con addosso il ciclone o l'anticiclone ho attraversato Mosca da nord a sud, da una parte all'altra e a casaccio, non l'ho mai visto neanche una volta». Il viaggio di Venja, io narrante e alter ego di Venedikt Erofeev, alcolista cronico e disperato, da Mosca a Petuškì, più che il pretesto per un «poema ferroviario» è il pretesto per un poema esistenziale. Petuškì è un miraggio da raggiungere attraverso mirabolanti divagazioni dello spirito. Venja è un moscovita che non ha mai visto il Cremlino. Che sarebbe come se un parigino non avesse mai visto la torre Eiffel, un newyorkese la statua della Libertà, un romano il Colosseo. Eppure, nonostante la sua alienazione, seguendo il flusso dei suoi pensieri conosceremo con lui le più intime sfumature dell'animo russo. Leggere Erofeev è il modo migliore per farsi un'idea della Russia attraverso una delle sue parole chiave: vodka.

Se è noto che gli eschimesi hanno quaranta modi di dire bianco, ci ricorda Paolo Nori, traduttore e curatore della nuova edizione (pagg. 216, euro 15) per i tipi di Quodlibet, «Ecco, i russi, hanno quaranta verbi diversi per dire ubriacarsi».

Non che Mosca-Petuškì sia un noioso trattato sociologico sull'alcolismo. Il capolavoro di Erofeev è prima di ogni altra cosa un fortunatissimo best seller, anche se la sua gigantesca diffusione è antecedente alla sua messa in vendita. In Russia «lo conoscono tutti quelli che hanno un rapporto, per quanto minimo, con la letteratura o, nella peggiore delle ipotesi, con la vodka». Cioè tutti.

Il suo successo affonda nel fenomeno del samizdat (che significa autopubblicazione). È paradossale pensare, in tempi in cui ci sono più selfpublisher che lettori, all'abnegazione con cui questi libri, censurati dal regime stalinista, venivano letti febbrilmente, diffondendosi attraverso un incessante passamano di copie - pochissime - di norma in carta carbone, fino agli angoli più remoti del Paese. Oltre al ruolo politico del «dissenso il fenomeno del samizdat divenne presto anche una moda che raggiunse «le dimensioni dell'alcolismo» (leggere autori pubblicati ufficialmente era considerato «poco elegante») fino a varcare i confini nazionali per mano degli emigré.

«Uscito dalla stazione Savelskaja avevo bevuto per cominciare un bicchiere di vodka del Bisonte perché so per esperienza che, come decotto mattutino, il genere umano non ha ancora inventato niente di meglio». Non solo vodka del Bisonte, anche quella del Cacciatore, quella al Coriandolo, quella al limone, ërš (miscuglio di birra e vodka), xeres (vino sovietico, 19 gradi), fino alle ricette per assemblare miscugli a base di vernice per mobili depurata, Eau de Cologne, lacca per le unghie. L'opera di Erofeev, vissuto per anni come senzatetto nelle fredde strade di Mosca, emarginato dallo stalinismo, per stile e struttura allucinata, ricorda molto Paura e disgusto a Las Vegas di Hunter Thompson, con l'alcol al posto della droga a fare da viatico per la ricerca del “sogno americano” russo (e «saremmo degli idioti a non cavalcare questo strano siluro fino alla fine»).

Attraverso gli occhi «inciclonati» di Venja («Ho molto vissuto, molto bevuto, molto pensato, so, quello che dico») vediamo gli occhi della Russia: «Il mio popolo che occhi, che ha! Sporgono sempre in fuori, ma non c'è nessuna tensione, in loro. Completa assenza di pensiero, però che potenza! (Che potenza spirituale!). Questi occhi non venderanno e non compreranno niente. Qualsiasi cosa succeda al mio Paese, nei giorni dei dubbi, nei giorni delle gravose riflessioni, nell'ora delle prove di ogni tipo e delle sciagure, questi occhi non batteranno ciglio. Per loro è tutta manna dal cielo...».

La sagacia, il delirio, la parodia, la provocazione di queste pagine, ne fanno un libro leggero, ma non frivolo, intriso di interrogativi religiosi, di slanci, di tenerezza, come tenera, e sempre consapevole, è la lingua di Nori, qui mezzo e non fine. E dopo aver guardato negli occhi di Venja («Oh, quanto torbidume, quanta deformità doveva esserci in quel momento nei miei occhi, l'ho capito dai loro occhi, perché nei loro occhi si rifletteva questo torbidume e questa deformità»), i nostri diventano quelli dei passanti e dei compagni di viaggio, degli avventori e dei negozianti, che lo accompagnano nell'ebbrezza: «Ma forse questa è davvero Petuškì?», «I lampioni splendevano in un modo fantastico, splendevano senza tremolare. Forse ero davvero a Petuškì?», «Non era Petuškì, questa, no. Il Cremlino splendeva davanti a me in tutta la sua magnificenza.

Ecco! Quante volte ho attraversato Mosca in lungo e in largo, sano di mente o privo di senno, quante volte l'ho attraversata e non ho visto il Cremlino neanche una volta. E ecco che adesso alla fine l'ho visto». Con i divertentissimi sproloqui di Erofeev possiamo permetterci il lusso di «Non dimenticare la cosa più importante, la commozione».

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