Eccentrici, dissoluti, mondani Gli artisti sono vere rockstar

Un saggio di Luca Beatrice sui creativi diventati "personaggi" sfruttando con astuzia i media. E le loro opere? Secondarie...

Eccentrici, dissoluti, mondani Gli artisti sono vere rockstar

«F requentandoti negli ultimi mesi, ho avuto modo di constatare fino a che punto l’arte sia per te un impegno abituale, un gioco gentile e inflessibile volto a contaminare ogni aspetto del tuo vivere. Cosa cerchi di dimostrare con questo comportamento?». È la prima domanda che Andrea Bellini, direttore del Museo di Arte Contemporanea di Rivoli pone all’artista Luigi Ontani, in un’intervista pubblicata sul numero di marzo dell’edizione italiana di Flash Art.
Mi piace l’idea che a questo interrogativo si possa rispondere con le parole di Maurizio Cattelan che Luca Beatrice pone a conclusione del suo nuovo libro, Pop-L’invenzione dell’artista come star: Dalì, Warhol, Basquiat, Koons, Hirst, Cattelan, in uscita per Rizzoli (pagg. 196, euro 18). «Sono un uomo ossessionato dall’immagine. Lo so, non è granché come definizione, ma è quella che rende meglio l’idea», dice di sé Cattelan, oggi il più quotato tra gli artisti italiani viventi.
Quella stessa ossessione è al centro delle sei biografie che Beatrice ricostruisce, lasciando apparentemente l’opera sullo sfondo, e concentrandosi sull’autocostruzione del personaggio concepita come un lavoro che si sviluppa in parallelo alla produzione artistica, e in definitiva altrettanto e forse più rappresentativo di questa. Al punto che è lecito chiedersi dove stia davvero l’opera, nei quadri e nelle sculture, o piuttosto nella trasformazione di se stessi in un’icona pop.
Quando e come gli artisti hanno capito che potevano diventare rockstar? Le figure emblematiche inanellate dal volume tracciano un percorso all’inizio del quale c’è ancora un pittore tradizionale che vive nel mito di Velazquez, sino a comportarsi come l’ultima possibile incarnazione del pittore di corte nella contemporaneità, e però nello stesso tempo elabora un’idea di sé radicata nell’immaginario hollywoodiano. Dalí ricorda il mito di Giano Bifronte. Da una parte appartiene ancora al mondo degli hidalgos di Cervantes, e dall’altra aderisce a un’esistenza da jet set, accompagnandosi con donne-feticcio, e avvicinandosi ai media che manipola abilmente, procedendo alla precoce monumentalizzazione di se stesso.
In Warhol il background artistico e il concetto di autorialità contano sempre meno. Al secondo si sostituisce l’idea di serialità dell’opera, e dunque dell’organizzazione industriale della produzione. Il primo invece viene demistificato, in nome di una democratizzazione dell’idea di artisticità che discende dalla celebre affermazione: «Ognuno ha diritto al suo quarto d’ora di celebrità», e dunque anche a essere riconosciuto come artista. Il perché non è così importante, sembra dirci Warhol. E tra le righe di Luca Beatrice emerge il ritratto di un uomo che amava contemplare la vita ancor più che agirla, affascinato dal rumore di fondo più che dai riflettori. Quasi che l’incapacità di controllare sino in fondo l’impatto del proprio lavoro sull’idea di icona, lo affascinasse ancor più della capacità di strappare dai sotterranei gli esemplari umani più bizzarri per farne delle star provvisorie.
Ma c’è un altro filo rosso che attraversa tutto il libro, ed è la passione per il denaro. Che in Basquiat assume la forma dell’autodistruzione, nell’incapacità di distinguere tra se stessi e gli oggetti di consumo che con la ricchezza ci si può assicurare, e bruciare così la vita come si farebbe con un guadagno troppo facile. Il senso dello spreco di sé da parte degli artisti non appartiene solo al nostro tempo, e, come ricorda Beatrice nell’introduzione, ha segnato anche grandi artisti del passato, da Caravaggio a Guido Reni, estenuato classicista che forgiava a ripetizione immagini mariane sempre più sensuali per pagare i propri debiti di gioco. Ma nel rapporto tra arte e vita di Basquiat si realizza forse per la prima volta con compiutezza l’idea che il plusvalore assegnato all’opera finisce per rifarsi, come una condanna, sulla vita, come un gioco di addizione/sottrazione.
E soprattutto di calcolo parlano invece le storie di Jeff Koons e Damien Hirst, che potrebbero essere lette quasi come una metafora dell’ascesa e della decadenza della finanza. Se da un lato Koons mutua ancor più che il look il comportamento asettico e scriteriato dell’agente di borsa, Hirst, mentre da un lato continua a speculare sulla volatilità intrinseca del proprio «titolo», dall’altro concepisce oggi l’opera stessa come il proprio bene rifugio (si pensi al teschio tempestato di diamanti, ossia a una realizzazione che ha un valore intrinseco che va al di là di quello artistico).

Di Cattelan intriga infine il desiderio, annunciato dall’artista di Padova, di scivolare fuori dalla propria carriera, e dunque dall’immagine di provocatore/guastatore che lui stesso è riuscito a creare. Per riavere una vita normale, fuori dall’arte, visto che l’artista è condannato a essere una star.

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