Ladri di idee al servizio del bello e del mercato

Un tempo non c’era il diritto d’autore e la lotta per la sopravvivenza faceva emergere solo i più grandi

Ladri di idee al servizio del bello e del mercato

A cosa somiglia la storia dell’arte? Più che a una disciplina in cui si possa applicare il metodo scientifico, mi ha sempre ricordato il domino, un gioco fondato cioè sull’associazione di idee. Guardi un quadro e te ne viene in mente un altro, che lo ricorda per la ripetizione di una figura, di un gesto o una postura, la maniera di organizzare la scena, il senso e la direzione del movimento, la luce, la tavolozza. È come ripensare all’evoluzione della specie: ogni artista contiene una selezione consapevole dei precedenti, che aveva assimilato con straordinaria attenzione e citava puntualmente.
Pittori e scultori si copiavano l’un l’altro? Secondo l’accezione di oggi della creatività, sì, e in maniera spudorata. In realtà guardavano l’esempio di chi li aveva preceduti ancor prima che la natura. Viaggiavano molto, soprattutto negli anni di formazione, e ricordavano ogni cosa. Usavano il disegno per appuntarsi la foggia di un abito, un’acconciatura, il profilo di una montagna. Quando avevano visto un volto, o un’opera particolarmente efficace di un collega, erano capaci di ricordarla per tutta la vita. Lentezza e discontinuità delle comunicazioni li incoraggiavano a ripetere deliberatamente le invenzioni di altri in luoghi lontani da dove le avevano viste. Il furto della proprietà intellettuale e il diritto d’autore non esistevano.
Altra differenza: nessuno si sarebbe mai posto la questione della libertà espressiva. L’eccellenza di un lavoro - il genio nessuno sapeva cos’era - era anzi misurabile nella capacità di muoversi entro i perimetri fissati da chi aveva ordinato l’opera. Dare il meglio delle proprie capacità, pur aderendo pedissequamente a un canone, al limite provando a solleticare la curiosità e l’estroversione intellettuale del committente: questo era il massimo concesso a un artista. L’esigenza di raccontare attraverso l’opera qualcosa di sé, di esprimere un pensiero o il sentimento del proprio tempo sono conquiste della modernità.
Gli artisti del passato non avevano sposato una vocazione. Esattamente come tutti i loro contemporanei, erano stati avviati al proprio mestiere per questioni di opportunità. Imparavano da piccoli, spesso già in età prescolare. E poi lavoravano come pazzi tutta la vita, sino all’ultimo giorno, tutte le volte che ce n’era la possibilità. Morivano letteralmente col pennello in mano. Molti erano veri imprenditori, esattamente come gli stilisti e le archistar di oggi. I più fortunati riuscivano a trasformarsi in una griffe: in quel caso il successo sopravviveva loro, e poteva essere tramandato per generazioni, all’interno di una stessa famiglia e bottega. I pittori erano soprattutto grandi comunicatori. Attraverso teleri e affreschi passavano messaggi altrettanto martellanti e perentori della pubblicità di oggi. Il sistema di rappresentazione che utilizzavano si fondava su chiarezza, leggibilità, capacità di suggestionare e stupire. Se Giotto, Raffaello o Rubens tornassero in vita troverebbero il proprio lavoro affine al cinema e alla televisione.
La cultura oggi proietta in primo piano l’esistenza eccezionale di chi la produce. Il suo consumo si fonda spesso sul desiderio di condividere anche solo una piccola porzione dell’intensità di una vita d’artista.

Le biografie dei maestri dell’antichità sono invece impastate con la stessa materia precaria degli altri uomini del loro tempo. La fortuna più grande era comunque quella di durare in vita. Non c’era spazio per altro. Capire questo scarto fondamentale è la forma essenziale d’umanesimo che l’avvicinamento all’arte antica richiede.

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