Si è spento ieri in un ospedale del Cairo per un attacco di cuore l'attore Omar Sharif. Lo straordinario interprete di «Lawrence d'Arabia» e del «Dottor Zivago» aveva 83 anni e all'inizio di quest'anno, secondo quanto riferisce il suo agente, gli era stato diagnosticato il morbo di Alzheimer. Sharif era nato ad Alessandria d'Egitto il 10 aprile del 1932 e aveva vinto due Golden Globe per Lawrence d'Arabia», film per il quale aveva anche ricevuto una candidatura all'Oscar, e un Golden Globe per «Il Dottor Zivago». Nel 2003 ricevette il Leone d'Oro alla carriera. L'Egitto, in lutto nazionale, non ha ancora stabilito la data del funerale.
E così se n'è andato anche il dottor Zivago. Probabilmente mai il volto e il nome di un attore sono stati tanto legati a un personaggio. Già, perché il protagonista del romanzo di Boris Pasternak e del kolossal di David Lean, avevano per tutti gli occhi languidi e il baffo malandrino di Omar Sharif (vero nome Michel Dimitri Shalhoub), spentosi ieri al Cairo a ottantatrè anni (a inizio di quest'anno gli era stato diagnosticato l'Alzheimer). Giusto mezzo secolo fa era uscito il film che l'ha consegnato alla storia del cinema e innalzato nell'Olimpo dei divi. Subito le carte in tavola, come sarebbe piaciuto a lui, che da campionissimo di bridge, e appassionato del gioco in genere, era in stretta intimità con fanti e re. Per tacere, manco a dirlo, delle donne. Omar Sharif non era un grandissimo attore: un po' come il coetaneo francese Jean-Paul Belmondo, star in cui il non eccelso talento era oscurato dalla travolgente simpatia.
Eppure di premi ne ha ricevuti anche lui. Certo, ma quelli, in un mondo tanto predisposto alla piaggeria, non si negano a nessuno. Come il Leone d'oro alla carriera assegnatogli alla Mostra del cinema di Venezia del 2003. O i tre Golden Globe vinti negli anni giovanili: due per Lawrence d'Arabia (miglior debuttante e migliore non protagonista) e uno per Il Dottor Zivago (migliore attore protagonista). Zero Oscar e una sola nomination, per Lawrence d'Arabia. Tutte produzioni degli anni Sessanta. Senza dubbio i più fortunati per Sharif, che allora sembrava avviato verso un futuro artisticamente radioso.
Omar Sharif era nato nel 1932 ad Alessandria d'Egitto da genitori di origini libanesi. Contrariamente al suo più popolare eroe, non si laureò in Medicina, ma in Matematica. Un titolo di studio da esibire soltanto in bacheca, visto che a vent'anni era già sul set di un film arabo, Lotta nella valle, di cui non è fortunatamente rimasta traccia. Il segno lo lasciò invece già al terzo film, del 1962, Lawrence d'Arabia, diretto dallo stesso regista con cui tre anni più tardi girò Zivago, l'inglese David Lean. Autore di grande classe, paladino della grandiosità più che della sintesi. Lawrence ricevette più Oscar di Zivago, sette contro cinque, con il povero Sharif sempre a bocca asciutta, ma al botteghino non ci fu partita. Zivago fu infatti uno dei più grandi successi mondiali di ogni tempo, sfondando dappertutto. Basti dire che un cinema di Roma lo tenne in cartellone per seicento giorni. Dando a Sharif gloria e popolarità eterne. Con una domanda rimasta per decenni in sospeso. Come fa, nella ribollente Mosca del 1910, il bel dottorino a tentennare tra la bruttina Geraldine Chaplin (Tonja) e la sfolgorante Julie Christie (Lara)?
Per il resto l'albo d'oro di uno dei rarissimi attori africani diventati divi è zeppo di titoli, ma povero di capolavori. Non si può considerare tale la commedia brillante Una Rolls-Royce gialla, diretta in quello stesso, miracoloso 1965 da un altro inglese, il raffinato Arthur Asquith, dove il povero Sharif se la doveva vedere con Rex Harrison, Shirley MacLaine, Ingrid Bergman e Jeanne Moreau. E neanche il pur originalissimo giallo La notte dei generali (1967), ambientato a Varsavia nella seconda guerra mondiale, con Sharif tenace investigatore in divisa. Decisamente più riuscito il musical Funny Girl dell'anno dopo, in cui il giocatore d'azzardo, guarda caso, Sharif conquista, non solo nella finzione, il cuore della sciantosa Barbra Streisand. Una delle innumerevoli prede di un instancabile cacciatore di femmine. Debole invece il western L'oro di MacKenna (1969), dove Sharif si trasforma in un beffardo bandito messicano che cerca di soffiare il malloppo del titolo a un trombonesco Gegory Peck.
Intanto, giocatore accanito, pubblica il suo primo manuale di bridge e entra nella lista dei top player del gioco. «Finisci a fare una vita in totale solitudine - racconta nella sua autobiografia -: alberghi, valigie, cene senza nessuno che ti metta in discussione. L'attrazione del tavolo verde diventò irresistibile. E ci ho sperperato delle fortune». E per pagare i debiti di gioco, si concesse troppi film inutili.
Per trovare un titolo passabile, bisogna arrivare al 1974 e a Il seme del Tamarindo: Sharif è un funzionario sovietico cotto dell'impiegatina del Foreign Office, Julie Andrews, che, in quanto moglie del regista Blake Edwards, sul set ebbe vita facile col playboy forzatamente a riposo.
Poi per trent'anni tanti film di scarsa qualità, fino all'unico da salvare, Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano del 2003. È la storia, amara, dell'amicizia tra un anziano droghiere arabo e un orfano quindicenne nella Parigi del 1960. Toh, Sharif qui è davvero bravo. Meglio tardi che mai.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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