Mishima, l'ultimo samurai

Cinquanta anni fa lo scrittore Yukio Mishima decise di suicidarsi attraverso l'antico rito giapponese del seppuku. Il suo gesto estremo sconvolgerà il mondo, che tuttora s'interroga sul messaggio lanciato dal patriota giapponese che ripudiava l'occidentalizzazione di una terra ancestrale

Mishima, l'ultimo samurai

"La genialità era un tipo di destino, e il destino era spesso il nemico della vita borghese", scriveva Yukio Mishima agli esordi.

Tokyo, 25 novembre 1970. Affacciato dal balcone del quartier generale della Difesa di un ex impero piegatosi solo alla potenza della scissione dell’atomo - e per questo asservitosi in tutto e per tutto al suo nuovo dominatore -, lo scrittore giapponese parla per l’ultima volta al mondo e al Giappone. Consapevole di non poterlo redimere nella scelta utilitaristica e disonorevole del proprio domani.

Lineamenti dolci, sguardo deciso, tono marziale. Un hachimaki che gli cinge la fronte e una strana uniforme indosso. È quella del Tatenokai, la Società degli Scudi, il piccolo esercito privato che ha fondato nel ’68 al fine di “difendere i valori tradizionali del Giappone”. È giunto là con l’inganno, fingendo di volersi confrontare con il generale Mashita dell’Esercito di Autodifesa giapponese, che invece prenderà in ostaggio con l’aiuto di quattro dei suoi fedelissimi. Ad uno di loro, Masakatsu Morita, spetta un’incombenza terribile nel caso di un fallimento annunciato. Si tratta di un compito straziante; si percepisce dalla tensione che sopporta a stento nell’approssimarsi dell’epilogo.

Sotto di loro, nella piazza d’armi della grande base militare, un migliaio di soldati sono stati inquadrati nei ranghi come unica condizione per risparmiare la vita all’ostaggio. È arrivata la polizia di Tokyo nel frattempo. Radio e televisioni rivolgono la massima attenzione a quel uomo risoluto e famoso in lungo in largo per quell’isola ancestrale. Lo scrittore che appena il giorno prima, come avesse presagito il fallimento della sua rivoluzione, aveva consegnato al suo editore l’ultimo dei suoi venticinque romanzi. Il più ambizioso. Al suo interno, assieme al racconto del sacrificio, c’erano intense lettere rivolte agli amici.

“Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.”

Sono queste alcune delle parole pronunciate da Mishima. Il poeta, il drammaturgo, l’attore, l’ultimo samurai rimasto fedele all’imperatore. O all’idea di lui che si è tramandata nei secoli. Non sortiscono l’effetto sperato. Nessun soldato ne viene rapito. Al contrario, fischi e sberleffi si abbattono sull’intellettuale che forse già conosceva il suo destino ancora prima di barricarsi in quella stanza anonima della base militare di Ichigaya. Lo aveva scelto sin dall’inizio. Sin dall’abbandono di quel posto di funzionario che si era guadagnato al Ministero delle Finanze. Lo aveva lasciato per dedicare tutto se stesso alla scrittura, alla poesia, al teatro: alle massime arti che un’anima libera può inseguire e perseguire nella ricerca disperata di una perfezione immateriale. Qualcosa che sopravvive al tempo.

La corruzione che infesta l’uomo, il tramonto dei valori dell’antica tradizione del Sol Levante, il capitalismo che si è insinuato nella viscere del Giappone e quel processo di "occidentalizzazione" che divora lo splendore del passato come un vorace cancro, sono i nemici morali e mortali di un uomo nato in una casa di legno. Allevato secondo le regole del bushidō: “la via del guerriero” samurai. Divenuto samurai nella sua tempra in un'epoca nella quale i samurai sono estinti.

Per Mishima l’asservimento alla potenza americana che ha polverizzato Hiroshima e Nagasaki con un solo gesto; e la successiva occidentalizzazione del Giappone, i trattati del 1950, insieme la moderna Costituzione che lo regola, andavano paragonati ad una “evirazione” nazionale. Un’umiliazione contro la quale ergersi. Sarebbe bastato un drappello di uomini puri, pronti a risorgere e morire in virtù di uno spirito antico e romantico, per sovvertire il decadimento politico e riportare il controllo nelle mani dell’Imperatore. Quegli uomini, se c'erano, non erano però i soldati radunati della piazza d’armi. Né quelli sintonizzati sui nuovi televisori Toshiba che rimasero sui loro divani. Nessuno rispose al suo fervore. Nessuno abbracciò la sua disperata rivoluzione. È così che Mishima si avvicina di un altro passo all’atto estremo. Al destino macabro che lo scrittore americano Henry Miller - l’anticonformista per eccellenza - accomunerà con stima alla condotta eroica che appartiene solo "agli spartani, ai kamikaze, e ai samurai". Per l’appunto. Era lui l'uomo che aveva vissuto in solitudine, agognato o stimato, alle volte, da destra come da sinistra per l’integrità assoluta ed estrema della sua incorruttibile ideologia, era pronto a dimostrarlo il suo cieco coraggio. Eppure aveva ancora tempo per tentare, aveva ancora molto da vivere.

Alberto Moravia, che aveva portato visita a Mishima nel 1967, lo aveva descritto come uomo che abitava in "una montagna di carta”; profondamente “occidentalizzato” nei gusti che esibiva nella sua casa a Tokyo e nei suoi costumi. Le fascinazioni provenienti dall’Europa - una culla della civiltà sulla quale non dovrebbe mai sorgere discussione - lasciavano intuire come il Mishima cosmopolita, anarchico, nazionalista, esibizionista, romantico e libertino come d’Annunzio - che aveva tenuto a tradurre in giapponese - non fosse affatto impermeabile alla nostra cultura. Solo come disdegnasse il decadimento che aveva portato nella sua patria tanto amata. Un decadimento che permea prima la borghesia e poi tutte le altre classi; e che la sua anima non era più in grado di patire o sopportare.

Secondo Emile Cioran, filosofo apolide, “l’ossessione del suicidio è propria di colui che non può né vivere né morire, e la cui attenzione non si allontana mai da questa duplice impossibilità”. Un riflessione che deve aver sfiorato più di una volta la mente dello scrittore nipponico che cinquant’anni fa decise di liberarsi dalla "prigione dell’esistenza terrena" nella maniera più radicale che il libero arbitrio concede all’Io; per consegnarsi all’eternità attraverso una morte estetica ed eroica come solo il suicidio tradizionale dei samurai può essere. Il seppuku, la “morte onorevole” che il guerriero si concede per mantenere la sua anima libera dalla vergogna della sconfitta in battaglia. Nel caso di Mishima, la vergogna del continuare a vivere.

Così quella mattina il suo luogotenente Morita - qualcuno sospetta anche suo amante - si avvicinò alle sue spalle. Mentre Yukio, ormai quarantacinquenne, si inginocchiava con i piedi scalzi, indietro. Dopo aver rivolto un saluto solenne all’imperatore, per tre volte, Mishima si trafigge il ventre con uno yoroidoshi, uno dei coltelli samurai che può liberare l’anima “priva di colpa” dal corpo mortale. Morita in piedi su di lui, si accinge a decapitarlo, ma sbaglia, per due volte. Il colpo di katana non affonda. Deve intervenire Hiroyasu Koga. Il campione di kendo. La testa di Mishima rotola sul pavimento. Il tempo di voltarsi, e Morita per la vergogna si trafigge anche lui il corpo per liberare la sua anima priva di colpe. Tradita solo dall’emozione. Implora con gli occhi. Un’istante dopo il secondo suicidio rituale è compiuto. Sul pavimento restano i corpi inermi e due teste mozzate.

Accanto a quella del poeta, un biglietto con le ultime sue parole: “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre”. È questa la dualità dell’essere che si tende nell’infinito. Il destino si era compiuto.

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