Quei poeti sognatori che furono inghiottiti dall'incubo peggiore

Da Pasternak alla Achmatova, anteposero l'estetica alla politica. Che li schiacciò

Quei poeti sognatori che furono inghiottiti dall'incubo peggiore
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Sgranando semplicemente i nomi dei poeti, vengono le vertigini: Achmatova, Pasternak, Cvetaeva, Majakovskij, Mandel'tam, Blok, Belyj, Esenin, Chlebnikov, Chodasevi. Ciascuno di essi non è soltanto uno dei poeti più interessanti della letteratura russa del Novecento; alcuni di essi sono tra i più grandi poeti di ogni tempo e di ogni lingua. Alla rivoluzione politica, i poeti anteposero la rivoluzione estetica. In effetti, la Rivoluzione, forse in ragione delle sue contraddizioni, diede un impulso formidabile alla lirica russa. Tra il 1916 e il 1922 furono pubblici libri determinanti del secolo scorso come Pietroburgo di Andrej Belyj, Mia sorella la vita di Boris Pasternak, Il flauto di vertebre di Vladimir Majakovskij, Tristia di Osip Mandel'tam, Piantaggine di Anna Achmatova, I dodici di Aleksandr Blok, Il distacco di Marina Cvetaeva, Confessione di un teppista di Sergej Esenin, L'orda di Nikolaj Tichonov. I poeti sperarono in un rinnovamento radicale delle arti, in una rivoluzione dello spirito.

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La Rivoluzione, sostenuta dalle avanguardie, preparata dai cubofuturisti che partorirono il loro manifesto nel 1913 si tramutò subito in reazione alle novità artistiche. La Russia dell'ottobre 1917 partorì la guerra civile: non era tempo di sofismi lirici né di poeti che violentavano la lingua. Alcuni gesti, in particolare, segnalano il mutamento del clima politico. Nel 1918 l'autorità russa ordina la chiusura di diverse riviste; il 3 luglio del 1918 Lenin decreta la fine de La nuova vita, il giornale dell'amico Maksim Gork'ij, con cui, dieci anni prima, a Capri, giocava a pianificare la Rivoluzione. «È necessario chiudere La nuova vita», dichiarò Lenin, «allo stato attuale delle cose, e con l'urgenza di portare l'intero paese a difendere la rivoluzione, ogni forma di pessimismo intellettuale è oltremodo nociva». La scusa della guerra civile in atto contro i bianchi giustifica una azione di controllo totale sulla cultura da parte dei rivoluzionari. Nel 1919 nascono ufficialmente le Edizioni di Stato, Gosizdat, che sostituiscono tutte le case editrici libere e private e che assolvono a una funzione censoria.

Nello stesso anno Lenin, che non amava l'irruenza di Majakovskij, impedì al Collettivo comunista-futurista (Komfut) del poeta di diventare un partito. «Il 1919 fu, in effetti, un anno cruciale per tutti coloro che avevano accolto la rivoluzione come un primo passo verso la rinascita spirituale. Più tardi Andrej Belyj scrisse che il 1919 era l'anno più difficile quello in cui erano svanite le illusioni sul prossimo avvento della Rivoluzione dello Spirito. Anche per i futuristi, e soprattutto per Majakovskij, il 1919 fu senza dubbio un anno di disillusioni si resero conto non solo che la Rivoluzione dello Spirito era lontana, ma anche che, così come loro stessi la presentavano, non era auspicata» (Bengt Jangfeldt). Con la fine della guerra civile e la vittoria dei rossi per i poeti le strade sono due: percorrere l'esilio di solito, in direzione Berlino o fare attività di servaggio per la Russia sovietica. Con la LEF (Fronte di Sinistra delle Arti), fondata nel 1922, Majakovskij tenta di continuare la lotta per una rivoluzione estetica. A lui si uniranno figure di rilievo come Pasternak ma in modo incostante, un po' rassegnato, sempre ai margini delle urla e dei proclami e Viktor Sklovskij. Il governo, comunque, guarda con sospetto a ogni esperienza letteraria eccentrica.

Nel 1921 Evgenij Zamjatin, lo scrittore di Noi, firma un articolo, Ho paura, in cui riassume con acuminata chiarezza lo stato dell'arte nell'era dell'arte di Stato: «Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici».

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