Il sesso alla deriva nell'Occidente in crisi d'identità

Il sesso alla deriva nell'Occidente in crisi d'identità

A che punto è scesa la notte sull'Occidente opulento e secolarizzato? È scesa a fondo. Davvero a fondo. Dopo le quasi due ore della prima parte di Nymphomaniac di Lars von Trier, una cosa è certa: la degenerazione della sessualità è sintomo di un malessere epocale. Forse non ci è stato mostrato ancora tutto (la seconda parte, due ore piene, uscirà il 24 aprile) e neppure il peggio (le scene più hard si potranno vedere nella versione definitiva di cinque ore che verrà editata alla fine dell'anno). Ma non ci sono dubbi al riguardo: confondere quest'opera fiume, totale e visionaria, mistica e debordante, per un film pornografico è una scemenza. Ormai il can-can sul proibito al cinema è solo un abusato espediente pubblicitario. Nella stagione del dominio universale della tecnica sul mondo la pornografia è a portata di mano (di clic): rapida, esplicita, multiforme, multietnica e, soprattutto, gratuita.
Quindi sgombrato il primo equivoco, proviamo a ragionare sulla vera natura di Nymphomaniac. L'infelicità dell'uomo occidentale, fotografato nella dimora più evoluta del Nord Europa. Il film si apre con due minuti di quadro nero. Poi una donna sanguinante a terra è raccolta da un vecchio. La musica che accompagna le immagini è bestiale e infernale. Esiste ancora qualcuno che volge la mano al prossimo caduto. Lo cura e gli offre alloggio. E gli parla. Tra l'anziano e la ragazza dal volto pesto e le labbra gonfie inizia un dialogo. O meglio, una seduta psicoanalitica. Come con Proust tutto prende avvio da una tazza di tè. Da lì si schiude l'universo della memoria. La donna, Joe (Charlotte Gainsbourg, attrice feticcio di Lars von Trier), è una ninfomane. E pezzo a pezzo, risalendo sin alla fanciullezza, racconta la progressiva discesa nel vortice del sesso vissuto in maniera compulsiva, casuale, ripetitiva e priva di affettività. Da principio per curiosità; poi per sfrontatezza; infine per impossibilità, l'atto sessuale le ha divorato l'esistenza. È una donna sola, in un universo dominato dalla solitudine. I suoi amori sono stati pochi e difficili (il padre, un ragazzo). Ha odiato la madre. Il resto del mondo le è indifferente. Ha vissuto nell'incapacità e nell'impossibilità di ricordare volti e nomi dei tanti uomini con i quali si è accoppiata meccanicamente. Tutto qui. Nymphomaniac completa la trilogia (preceduta da Melancholia, 2011, e Antichrist, 2009) sulla decadenza, sul tramonto inarrestabile dell'Occidente, messo a morte da assenza di spiritualità, indifferenza, razionalità, mercantilismo, onnipotenza dell'uomo. A questa deriva Lars von Trier prova a rispondere con l'arte delle immagini. Il suo è uno specchio scuro. Un'opera al nero perturbante. Un riflesso fastidioso. Un rigurgito di amarezza. La lotta col destino, nell'opera ultima di Von Trier, assume le sembianze di una battaglia perduta, di un'ultima partita il cui risultato negativo è già scritto nella tragedia degli eventi mostrati. Il destino è oggi. È presente mostruoso. Forse nessuno verrà a salvarci.

E la condizione umana è talmente delirante da apparire ridicola, ironica, incredibile. Guardare Nymphomaniac è guardare cosa siamo diventati (o cosa le forze del destino ci faranno diventare). Possiamo anche scegliere di non guardare. Di passare davanti alla donna in terra e tirare dritto.

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