Valley of the Gods, l'invettiva contro il cinema commerciale

Valley of the gods è il nuovo film di Lech Majewski che vede come protagonisti John Malkovich e Josh Hartnett in un dramma dell'assurdo che nasconde più di un messaggio

Valley of the Gods, l'invettiva contro il cinema commerciale

Con la riapertura dei cinema in Italia sono molti i titoli che si affacciano all'orizzonte per avere una distribuzione classica, nel buio della sala. Tra questi c'è anche Valley of the gods, il nuovo film del regista polacco Lech Majewski, che vede come protagonisti gli antidivi di Hollywood, John Malkovich e Josh Hartnett.

La trama ruota intorno allo scrittore in crisi John Ecas (Josh Harnett) che ha perso la propria verve creativa e rischia di perdere anche il suo matrimonio, quando la sua vita si intreccia a quella di Wes Tauros (John Malkovich), l'uomo più ricco del mondo, che vive arroccato in un castello che sembra appartenere al mondo delle favole più oscure, e che si è messo in testa di comprare delle terre considerate sacre dai Navajo.

Diviso in più capitoli, come una sorta di antologia cinematografica, Valley of the gods ha dalla sua una grandiosa potenza visiva. Le immagini sullo schermo sono ipnotiche, piene di quella maestosità che da sempre appartiene ai grandi parchi nazionali statunitensi che hanno cooperato a rendere iconico un genere come, ad esempio, quello del western. Lo spettatore si trova così ammaliato da una natura ostica e selvaggia, una natura che porta in sé una traccia di divino e che viene contrapposta a una metropoli molto spesso cupa, ammantata di toni freddi, quasi a volerne sottolineare l'artificiosità.

Valley of the gods, in effetti, è una pellicola che procede per dicotomie e opposti: la ricchezza e la povertà, la solitudine e la famiglia, ma anche il mito contro la storia, l'umano contro il divino. Il regista Lech Majewski mette troppa carne al fuoco, riempiendo la pellicola di allegorie, rimandi e sottotrame che molto spesso spingono lo spettatore a perdere ogni punto di riferimento, scivolando in un teatro dell'assurdo dietro il quale si nasconde un discorso molto più ampio, attraverso il quale il regista sembra voler difendere a ogni costo il cinema d'autore contro quello più commerciale.

Ecco allora che sotto la trama spesso ingarbugliata e dal ritmo discutibile si nascondono omaggi a grandi registi come Stanley Kubrick o Federico Fellini, mentre l'occhio insindacabile del regista insiste su una sorta di morale sotterranea per cui il "nuovo" è qualcosa di fittizio, di artificiale, che non ha diritto di competere con quelle che sono le radici del cinema nella sua forma più pura. La Valley of the gods diventa dunque un teatro di sabbia e polvere dietro cui nascondere la Hollywood che secondo molti registi sta divorando la verve immaginifica degli artisti in nome di una produzione quasi in serie. In questo senso è emblematico il rapporto tra il personaggio di John Malkovich e il suo maggiordomo, che sembra un chiaro riferimento a quello da Bruce Wayne/Batman e il suo maggiordomo Alfred.

Peccato che tutta questa riflessione, senz'altro potente e attuale, sia stata sommersa da una trama episodica molto spesso fine e se stessa, che manca l'obiettivo principale del cinema, ossia intrattenere chi è seduto in poltrona.

E sebbene la regia sia di un livello eccelso, così come la resa fotografica dei luoghi, la sensazione è di trovarsi all'interno della stessa abitazione di Tauros, dove tutto è bello ma forse un po' troppo privo di anima.

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