La notizia di un accordo fra il rabbino Shlomo Amar, uno dei due Grandi rabbini di Israele, e il ministro della Giustizia Daniel Friedman sulla possibilità che, in alcuni casi, cittadini israeliani possano sposarsi con rito civile è stata interpretata da alcune agenzie stampa come una mini rivoluzione in Israele. Non è cosi. Le cose restano come prima, e cioè che nel moderno democratico «laico» Stato degli ebrei, mezzo secolo dopo la sua creazione, il matrimonio civile non esiste né per i suoi cittadini ebrei, né per i cristiani o i musulmani. Un’assurda situazione, molto contestata e generalmente risolta, da chi rifiutava di sposarsi con il rito religioso, mediante l’escamotage del matrimonio all’estero (generalmente per gli ebrei a Cipro dove da anni fiorisce l’industria matrimoniale). Per lo Stato israeliano un matrimonio del genere anche davanti ad autorità civili, viene riconosciuto dai tribunali a tutti gli effetti salvo naturalmente per quelli di esclusiva competenza religiosa.
Per spiegare ai lettori questo paradosso, occorre precisare i termini dell’accordo intervenuto fra il rappresentante del Gran Rabbino e il ministro della Giustizia. Poi cercare di spiegare perché Israele non ammette e con tutta probabilità non ammetterà per molto tempo il matrimonio civile.
L’accordo in questione concerne quei cittadini israeliani che non essendo riconosciuti come appartenenti a uno dei culti ammessi in Israele (ve ne sono ufficialmente undici) potranno d’ora in poi sposarsi davanti a una giurisdizione civile. In termini pratici questo potrebbe interessare soprattutto quel 5% dei 300-400mila immigrati non ebrei dalla Russia, che sono diventati cittadini israeliani.
Tuttavia l’accordo resta alquanto restrittivo per gli ebrei - credenti o no - che la legislazione israeliana riconosce come ebrei in quanto nati da madre ebrea (statuto che per i tribunali rabbinici non cambia con la conversione ad altre religioni in merito ai diritti famigliari di loro esclusiva competenza. Per lo Stato, invece, la conversione impedisce l’acquisizione automatica della cittadinanza israeliana per l’ebreo che si stabilisce in Israele in virtù della «Legge del Ritorno»).
L’accordo, che a detta del ministro potrebbe essere in futuro una «formula allargata» (gli ultra ortodossi già lo denunciano come una «rottura nella siepe» che protegge la religione mosaica), è per il momento solo il risultato di un mercanteggiamento fra potere statale e potere rabbinico. Quest’ultimo infatti, in cambio della minuscola concessione fatta al ministro della Giustizia, ottiene conferma da parte dello Stato del molto discusso diritto decisionale esclusivo dei tribunali rabbinici sulle conversioni all’ebraismo. Il che va contro le speranze delle correnti riformista e liberale del giudaismo.
Passando alla questione dell’assenza del matrimonio civile in Israele, è necessario ricordare che essa non ha radici storiche ebraiche. Nasce invece dal fatto che il governo mandatario britannico, prendendo possesso del territorio palestinese dopo la prima guerra mondiale in seguito alla sconfitta dell’impero ottomano, ha mantenuto dove era possibile, e conveniente, lo status quo del sistema giuridico, soprattutto per ciò che riguardava il diritto privato. Di conseguenza durante tutto il periodo mandatario venne mantenuta in vigore la giurisprudenza ottomana, in particolare molti aspetti ed effetti del Codice della Megella, che a metà dell’Ottocento era stato considerato un grande passo verso la modernizzazione della Turchia.
Quando, dopo il 1948, con la creazione dello Stato d’Israele, si trattò di affrontare la riforma del diritto mandatario, e nella specie quello privato, il governo si trovò di fronte a una inaspettata forte coalizione di interessi religiosi ebraici, musulmani e cristiani che volevano mantenere in vigore il vecchio sistema ottomano per lo meno su quattro questioni fondamentali: matrimonio, divorzio, adozione e alimenti.
Su tali questioni a tutt’oggi i tribunali religiosi dei rispettivi culti mantengono l’esclusività. Non solo, ma nel caso di azioni giudiziarie in cui le parti ricorrono a un tribunale civile piuttosto che religioso, i giudici devono basare le loro sentenze in base alla legislazione religiosa dei contendenti.
Questa situazione, mantenuta in vita da interessi politico-religiosi (e che può rasentare l’assurdo procedurale quando i contendenti appartengono a culti diversi e non trovano in Israele tribunali di livello superiore a cui ricorrere - ad esempio la Sacra Rota per i cattolici) è da anni contestata da giuristi e da movimenti per i diritti umani.
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