Dico, vero capolavoro di ambiguità

«Nessuno ha obbligato nessuno a candidarsi in una coalizione che si sapeva in partenza divisa su diversi fronti cruciali. Ma nessuno obbligava Prodi ad accompagnarsi a coscienze che sapeva inquiete: non si mette assieme uno schieramento così articolato senza pagarne il prezzo».
Così sul Manifesto Rossana Rossanda, la ottantaduenne «ragazza del secolo scorso», con la quale non esitiamo a dirci d’accordo almeno nella analisi, non sulla soluzione, che sarebbe, se abbiamo ben capito, un compromesso tra le parti in commedia. In verità, in questo governo così contraddittorio convivono le velleità della sinistra multiforme e la doppiezza strutturale di Prodi. Doppiezza congenita e programmata, non c’è dubbio, che fa comodo alla sinistra e non certo al centrosinistra della variegata ed eclettica Margherita, dove c’è tutto e il contrario. Dunque di compromessi ce n’è a iosa.
C’è bisogno di ripeterlo? Prodi è tutt’altro che uno sciocco, è anzi un gran furbo, anche se non è proprio il prodotto della migliore intellighenzia politica. Ha ragione Pierluigi Battista, che lo vede «forte perché debole», capace di trasformare la sua debolezza in fattore di forza. Dunque, noi che siamo su quest’altra sponda cominciamo a considerarlo un avversario che sa il fatto suo e, pur con tanti contorcimenti, lo sa far valere.
No è una cosa da poco quel che sta facendo. Sta rivoluzionando la politica, la morale e la cultura in un momento cruciale per il Paese. È così, non c’è dubbio. La politica estera non è più la stessa dopo più di mezzo secolo di occidentalismo, di rapporti profittevoli con l’America e appartenenza alla Nato. A governare sono stati chiamati partiti con posizioni, ideologie e personaggi rivoluzionaristi. Non possono, poi, non avere ripercussioni di carattere morale certe scimmiottature zapateriane. E, ovviamente, tutto il contesto - posizioni, comportamenti, decisioni, leggi - fa cultura. Una cultura - prendiamone atto realisticamente - totalmente antitradizionale, sconvolgente in taluni casi.
Per un liberale è pacifico che il pensiero umano ha diritto - e guai se non fosse così - di cambiare: il mondo delle idee e delle cose non può rimanere immobile, non siamo più all’epoca della Scolastica. Ma natura non facit saltus: è una regola da non dimenticare. Con salti troppo alti ci si rompe l’osso del collo.
Non sono un moralista, tanto meno un fondamentalista, anzi da liberale qualche comprensione per i diritti dei «diversi» credo di averla, ma, per esempio, questa legge definita Dico, non più Pacs, non è un capolavoro di chiarezza e buonsenso. Un testo più ambiguo non si poteva inventare. Quattordici articoli che sono un gran pasticcio. Frutto degli equilibrismi di Prodi, come giustamente ha scritto Renzo Foa. Il mio e suo amico Emanuele Macaluso, nella bella rubrica sul Riformista, gli ha rimproverato la definizione: sarebbe stato meglio, dice, tacere. Nossignore, caro Emanuele, non si può tacere di fronte a simili pastrocchi, che meritano disapprovazione non tanto per motivi morali o religiosi, ma perché sono un compromesso che disonora la politica e il diritto.
Lo dico, ripeto, da liberale che crede nel giusnaturismo e nel contrattualismo, riconoscendo peraltro alle autorità cattoliche il diritto di esprimere liberamente il proprio dissenso. Non si può non giustificare, laicamente, il «non possumus» della Chiesa. Tra l’altro va anche detto che si propongono norme che stridono fortemente con l’articolo 29 della Costituzione. Ma Prodi, in tutta evidenza, preferisce stare nel suo brodo che è la doppiezza politica.
Doppiezza che si estende, in maniera persino più pericolosa, alla politica estera dove ormai il premier si destreggia, qui meno abilmente che in altri ambiti però tra l’antiamericanismo viscerale delle sinistre radicali, che lo condizionano fino alla subordinazione, e gli opportunismi, in taluni casi utili, dei ministri degli Esteri e della Difesa.

Con obiettività va registrato che sia l’uno che l’altro, sul caso Vicenza e sull’Afghanistan, hanno usato misura e moderazione, a cui Prodi invece non fa mai ricorso. E si capisce il perché: non deve dispiacere ad alleati come Diliberto e Giordano sempre pronti a minacciare lo sfascio. Ma che bel teatrino.

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