"Dietro le date cercate la Storia, è fatta di dubbi e non di certezze"

A "èStoria" si discute per capire come costruiamo il senso del tempo

"Dietro le date cercate la Storia, è fatta di dubbi e non di certezze"
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Quest'anno èStoria, il festival della storia più importante d'Italia, è giunto alla sua ventesima edizione, e ha scelto come tema la parola «date» perché la storia non si fa senza date, ma non si può farla nemmeno facendosi schiacciare da una marea di numeri imparati a memoria. Di questo e di molto altro si parlerà a Gorizia da oggi a domenica 26 maggio. Il Giornale ha intervistato sul tema Alessandro Vanoli, filosofo della storia e divulgatore che a Gorizia giocherà proprio con una delle grandi paure degli studenti e non solo: «Non mi ricordo le date!» a partire dal suo omonimo libro pubblicato per Treccani.

Professor Vanoli, le date è importante ricordarle?

«Ovviamente il titolo è una provocazione. Le date servono ma va capito in che senso. Possiamo dire che la Storia è la scienza dell'uomo nel tempo. Se levo il tempo non ho più la storia, piaccia o non piaccia. Una griglia di date serve. Ma la griglia da sola è una cosa povera e spesso dalla scuola ci resta solo quella. La Storia serve soprattutto a darci una vertigine di dubbio proiettata nel passato. I dati che ci arrivano dal passato devono portarci a chiederci il perché delle cose... Il dubbio deve essere la radice del metodo. Ci aiuta a non credere a tutto quello che ci viene propinato, oggi serve più che mai».

Che legame c'è tra tempo e spazio, tra data e luogo? Nel 1492 si scopre l'America, ma non tutti lo vengono a sapere nello stesso tempo...

«O diamine questo è difficile da sintetizzare... Io direi che inevitabilmente la storia ha a che fare con la geografia. Qualsiasi storia si faccia si finisce per incentrarla su un punto geografico. Tendiamo a tarare la nostra narrazione su un centro del mondo. Questa è una distorsione inevitabile. Poi nel costruire la nostra idea di storia scegliamo delle date per fissare momenti fondamentali. Allora prendiamo il 1492: serve a spiegare qualcosa di molto rilevante per il mondo occidentale, serve poco per spiegare il mondo cinese. E se ci chiedessimo di cosa parlavano gli italiani nel 1492? Della morte di Lorenzo de' Medici che cambiava gli equilibri della penisola, non di Colombo...».

Quindi la scelta delle date da ricordare non è neutra e cambia nel tempo...

«Sì cambia sempre, la scelta delle date che contano è dettata dal presente. La Storia non è una Storia assoluta. Quelle date che noi ricordiamo sono in fondo le date di una Storia d'Italia. Un esempio, i comuni italiani visti come un prodromo delle libertà contemporanee... Non è sbagliato ma è un modo di guardarli nato nell'Ottocento con il Risorgimento. Ma ad esempio la Reconquista o la storia polacca le sfioriamo appena. La Storia serve anche a creare un percorso identitario e quindi il modello che creiamo serve anche a questo. Le date vengono selezionate così... Un esempio divertente. Noi scriviamo correntemente di invasioni barbariche per indicare le migrazioni che hanno travolto l'Impero romano. In Germania le chiamano semplicemente spostamenti di popoli, niente barbari... Come dire, erano i loro antenati».

Fissare la data nella cultura umana è una cosa antichissima. Perché la misura del tempo è importante per le società?

«La misura del tempo serve a costruire identità. Serve a costruire radici, noi abbiamo bisogno di pensarci legati ad un filo che va verso il remoto dietro di noi. A partire dai registri amministrativi dei sumeri il fissare il prima è un modo per garantire l'oggi, per dare senso a chi siamo. C'è una questione antropologica: il passato è la sola cosa che ci consente di spiegarci. Scegliendo materiali, sia chiaro in modo onesto, impilando i materiali del passato decidiamo chi siamo e anche chi non siamo. Alla fine dei conti un calendario, che è una cosa tipica delle civiltà sedentarie, diventa un modo di radicamento al luogo».

Quand'è invece che una data ci inganna? Esempio: 1492 fine del Medioevo. Ma non è che si può passare un cancellino, non cambia tutto di colpo...

«Il feudalesimo resta lì anche molto dopo, per dire. Qualsiasi data può ingannare. Si usano date per periodizzare ed è utile. Ma poi questo schematismo dobbiamo saperlo rompere... Dobbiamo sapere che la data può nascondere altro. Nel 1492 cade Granada: è l'atto finale di quella che chiamiamo Reconquista».

Una volta imparavamo date a memoria, con il digitale si fa molto meno. Questo svuotamento, questa perdita di date sono pericolosi?

«Fa parte di un fenomeno più

generale, ci stiamo allontanando dalla Storia. Il problema vero è l'onnipresenza del presente che schiaccia tutto a colpi di immagini. Siamo schiacciati dalle immagini e non si legge più... La Storia ha bisogno di tempo».

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