Ecco perché armare i ribelli sarebbe suicida per gli alleati

Bengasi«Non dico sì, ma neppure no». La reazione di Barak Obama all’ipotesi di armare i ribelli è di quelle da far cadere le braccia. Mentre scriviamo le linee ribelli stanno collassando. Ras Lanuf è caduta ieri mattina. Brega poche ore dopo. In meno di 48 ore l’armata della «Cirenaica libera» è ripiegata per oltre 200 chilometri. E solo una nuova serie di bombardamenti impedirà ai governativi di riaffacciarsi alle porte di Bengasi. Tutto ciò può far pensare che l’idea di armare i ribelli sia sensata. Nulla di più sbagliato.
Il problema degli insorti della Cirenaica non è la mancanza di armi, ma l’assoluta incapacità di usare quelle già in loro possesso, oltre alla totale assenza di capacità tattica e a una disorganizzazione senza precedenti. I ribelli, oltre al classico kalashnikov, dispongono di mitragliatrici antiaeree da 14, 5 millimetri, di lanciarazzi anticarro, di batterie di katyusha, di carri armati T 55 e T72 e di cannoncini anticarro. Queste armi razziate negli arsenali del regime risalgono agli anni Settanta ma sono le stesse utilizzate dai 10mila lealisti pronti a difendere il raìs. Sono le stesse con cui i ribelli afghani hanno fronteggiato inizialmente l’Armata Rossa in Afghanistan. Le stesse con cui gli insorti iracheni hanno messo in difficoltà l’esercito americano.
La differenza la fa il modo di usarle. Gli insorti iracheni non hanno mai affrontato gli americani in campo aperto. I ribelli di Cirenaica hanno la presunzione di poter conquistare la capitale avanzando in fila indiana lungo l’unica strada che congiunge Bengasi alla Sirte e a Tripoli. Il tutto senza una linea di comando, senza comunicazioni, senza logistica e senza strutture difensive in grado di metterli al riparo dalle controffensive. Per ricacciarli indietro i fedeli del raìs devono soltanto puntare le batterie di katyusha sulla striscia di asfalto litoranea e aprire il fuoco.
Pensare di ribaltare questa situazione moltiplicando la capacità di fuoco ribelle è come portare un gruppo di boy scout in un’armeria e illudersi veder uscirne dei marines. Ben che vada si faranno massacrare e regaleranno gli armamenti al nemico. Mal che vada verranno sconfitti e le armi fornite dall’Occidente passeranno nelle mani dei gruppuscoli più fanatici e intransigenti. L'Afghanistan lo insegna.
Dopo il ritiro dell’Armata Rossa nel 1989 i missili antiaerei Stinger restarono nelle mani delle formazioni fondamentaliste e per recuperarli le forze speciali americane furono costrette a compiere numerose operazioni. Questo non impedì all’Iran d’impossessarsi di alcuni esemplari di un’arma antiaerea considerata al tempo rivoluzionarla e riprodurla nei propri stabilimenti. Ma il precedente più significativo è quello dei Contras in Nicaragua. Nel 1987 malgrado gli ingenti quantitativi di armi regalati loro dalla Cia i guerriglieri anticomunisti vennero sbaragliati in poche settimane dalle meglio addestrate e meglio motivate forze sandiniste.
Detto questo vi sono almeno altre due buone ragioni per bollare come sconsiderata la proposta di armare i ribelli. Il primo è il fattore distanza. Tra Bengasi e la Sirte vi sono 500 chilometri. Tra la Sirte e Tripoli altrettanti. Illudersi che qualche cannone o missile consenta ai ribelli di sostenere lo sforzo logistico di una simile avanzata equivale a scommettere sulla vittoria di un centometrista alla maratona. Anche perché dopo la Sirte i ribelli dovrebbero far i conti con l’ostilità di tribù e popolazioni fedeli al regime. Ma la più concreta fra le ragioni che impediscono una fornitura di armi ai ribelli è quella politico diplomatica.

La risoluzione 1970 votata dall’Onu a febbraio vieta qualsiasi fornitura di armi sul territorio libico. Dunque per armare i ribelli serve una nuova risoluzione. E nell’attesa c’è la speranza che qualcuno al Pentagono indichi la via migliore a una Casa Bianca sempre più sperduta nell’intrico libico.

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