La Federal Reserve dà il fischio d'inizio alla partita contro l'inflazione. Si parte con un rialzo dei tassi da un quarto di punto, riposizionati ieri tra lo 0,25 e lo 0,50%. Ma alla stretta di ieri, la prima dal dicembre del 2018, ne seguiranno altre sei nel corso dell'anno, con l'obiettivo di portare il costo del denaro in prossimità del 2% entro la fine del 2022 e di far piegare la testa al carovita, schizzato in febbraio al 7,9%.
Eccles Building assume così un atteggiamento un po' ambivalente. Da un lato, non forza la mano con un giro di vite da mezzo punto come l'ala più oltranzista del board avrebbe voluto; dall'altro, segnala l'intenzione di avviare un percorso di normalizzazione della politica monetaria anche più rapido del previsto. «Se dovessimo ritenere che sia opportuno muoverci più rapidamente per rimuovere la politica accomodante, lo faremo», ha spiegato il presidente Jerome Powell. Insomma: un po' colomba, un po' falco. Un atteggiamento legato all'alea di incertezza che riguarda la congiuntura. Il conflitto Mosca-Kiev ha ulteriormente sparigliato carte già abbastanza difficili da decifrare, come peraltro emerge dal comunicato ufficiale. «L'invasione dell'Ucraina da parte della Russia sta causando enormi difficoltà umane ed economiche. Le implicazioni per l'economia statunitense sono molto incerte, ma nel breve termine è probabile che l'invasione e gli eventi correlati creino ulteriori pressioni al rialzo sull'inflazione e peseranno sull'attività economica».
La Fed ha però scelto di mettere come obiettivo prioritario la lotta all'inflazione. «Senza la stabilità dei prezzi, non puoi davvero avere un periodo prolungato di massima occupazione - ha detto Powell - Il piano è di ripristinarne la stabilità, sostenendo anche un mercato del lavoro forte. Questa è la nostra intenzione e crediamo di poterlo fare». Ma l'aver cocciutamente assecondato la narrazione sulla transitorietà del fenomeno inflazionistico, ha portato la banca a muoversi con ritardo. E questa lentezza nell'agire rischia di rendere i tassi un'arma spuntata. Per risultare efficace la lotta, i Fed Funds dovrebbero essere spinti almeno a 9%. Quarant'anni fa, con un'inflazione ai livelli attuali, erano attestati al 15%. Un tale margine di manovra Washington non ce l'ha. Soprattutto perché, rispetto ad allora, il sistema finanziario statunitense è talmente iperfinanziato che ogni tentativo accelerato di alzare il costo del denaro potrebbe avere come conseguenza un completo collasso delle attività di rischio.
Già con il ruolino di marcia ora stabilito, la Fed rischia di trascinare l'America, come paventava ieri l'ex segretario al Tesoro Larry Summers, prima in stagflazione e poi in una recessione a braccetto con un carovita ancora arroventato. Il peggio del peggio. Un pericolo, tuttavia, che la banca centrale Usa non sembra avvertire, poiché prevede una crescita al 2,8% quest'anno e al 2,3% nel 2023, col tasso di disoccupazione che dovrebbe attestarsi nel biennio al 3,5%; inoltre, è convinta di far arretrare l'inflazione (4,3% quest'anno, 2,7% il prossimo), anche se «è probabile che impiegherà più tempo del previsto - ha ammesso il successore di Janet Yellen - per tornare al nostro obiettivo di stabilità dei prezzi». In base alle previsioni, un Eldorado, il migliore dei mondi possibili. «La probabilità di una recessione entro il prossimo anno - ha detto Powell - non è particolarmente elevata. Tutti i segnali indicano che questa è un'economia forte».
Se però qualcosa andasse storto, la Fed sarebbe costretta a rivedere i propri piani. A cominciare dalla manovra di riduzione degli asset in pancia all'istituto, pari attualmente a 9mila miliardi di dollari, su cui al momento mantiene un certo riserbo.
Powell non ha escluso la possibilità che l'operazione di dimagrimento possa cominciare in maggio. Senza però fornire cifre sull'entità dei tagli, che secondo Goldman Sachs dovrebbero portare a un alleggerimento del bilancio di tremila miliardi entro il 2025.
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