La grande illusione che le esportazioni italiane potessero crescere senza una adeguata politica di sostegno all'export, è stata smentita dagli ultimi dati ufficiali. L'Italia paga errori strategici che comprendono anche la fuga dei cervelli e l'incapacità di attrarne. Ne abbiamo parlato con Antonio Belloni, autore di “Esportare l’Italia. Virtù o necessità?” (Guerini e Associati), che da oltre dieci anni si occupa di export, dentro e fuori le Pmi, tra capannoni e ricerca.
Per l'export italiano meglio puntare su mercati consolidati, come Ue e Usa, o veleggiare verso nuovi mercati?
I cambi di rotta dei mercati attuali rendono l’instabilità una costante. Nonostante questo l’azienda ha la necessità di pianificare la propria presenza estera nel medio periodo e non può cambiare rotta in maniera repentina e consistente. Può invece applicare piccole correzioni ad una strategia più stabile e continua. Per questo è indispensabile comporre un “export mix” prudente che tenga conto sia dei volumi e delle dinamiche dei mercati maturi, sia di quelli con un’evoluzione più rapida.
Quali sono i mercati più adatti per le nostre produzioni?
L’Italia ha una elevata varietà di prodotti, sia in termini di qualità che di prezzo, sia di prodotti finiti che di quelli destinati alla subfornitura. Ci sono infatti prodotti più basici che appartengono ad una sorta di “Made in Italy low cost”, ed altri di qualità elevata e addirittura elevatissima. Per darne una lettura più semplificatoria si individuano la meccanica, nell’agroalimentare, nella moda, nell’arredo, o si tentano classificazioni come le 3F - Food, Furniture, Fashion, o le 4A - Automotive, Agroalimentare, Arredo-casa, Abbigliamento-tessile. Ognuna di queste produzioni ha dei canali preferenziali a seconda dell’età, del potere d’acquisto, dei gusti dei consumatori perché sia la domanda globale che l’offerta nazionale sono ampie e varie, quindi c’è posto per tutti. Un passo decisivo sarebbe decidere di concentrarsi sulle produzioni che generano maggior valore aggiunto ed indirizzarsi verso i mercati in grado di assorbirle al meglio.
Nel Suo libro “Esportare l’Italia” stigmatizza il fatto che pur rappresentando quasi un terzo del Pil, l’export non viene considerato nelle agende elettorali. Abbiamo una classe dirigente e politica poco attenta ai punti di forza del nostro Paese?
L’export non è e non sarà certo la panacea di tutti i mali del Paese. È però vero che non considerarlo una soluzione, benché parziale e momentanea, per rimettersi in salute, è stato un errore. La Germania non l’ha commesso, e nel frattempo ha sistemato i conti a casa. L’export è una parte della realtà economica italiana e la politica è stata fino ad oggi distratta e lontana dalla realtà. Negli ultimi anni la classe dirigente, non riuscendo ad incidere in maniera concreta, ha preferito più comodo sedersi a tavola con la politica. Ma questa è una storia lunga. Ora che c’è la possibilità di cambiare servono interlocutori capaci, seri e soprattutto stabili, perché non ci si può presentare all’estero ogni sei mesi con un Ministro diverso…
Le Pmi hanno problemi a confrontarsi con mercati lontani. Pochi soldi, ancor meno manager preparati sull'export, scarsa conoscenza dei mercati e dei Paesi. Mentre Francia e Germania investono molto in questo settore. Che fare?
Dal lato “pubblico” va segnalato che un recente studio della Banca d’Italia dimostra che l’Italia dedica al sostegno all’export un impegno finanziario almeno pari se non superiore a questi altri Paesi; non si può dire lo stesso dell’impegno organizzativo, che vede i fondi e i progetti cronicamente frazionati tra decine di soggetti che occupano livelli di governance differenti; dai ministeri, alle regioni, fino ai corpi intermedi ed alle realtà associative. Le imprese invece fanno quello che possono, e la nota positiva è il crescente dialogo con il mondo dell’istruzione che punta a vedere soddisfatte al meglio le necessità imposte dal lavorare sui mercati esteri.
L'Italia è diventata terra di conquista per investitori stranieri che comprano marchi del “Made in Italy” nella moda, nel cibo. Vuol dire che produrre in Italia è possibile, se si è capaci?
Il piano del dibattito che leggiamo sui media pare ancora poco lucido: un giorno ci si lamenta dell’invasione straniera, e l’altro ci si compiace se il Governo ha messo in campo qualche provvedimento per rendere l’Italia più business friendly e una destinazione ospitale per gli investitori stranieri. Non si possono sostenere entrambe le opinioni senza prima ragionare su quali settori vogliamo proteggere, quali vogliamo “aprire”, quali altri rendere il più attrattivi possibile. Di tutto questo ancora non si parla abbastanza. Per il resto produrre in Italia è difficile, e gli imprenditori che lo fanno con buoni risultati, resistendo o addirittura crescendo, meritano una medaglia.
Sky, nuovi partner esteri per Mediaset: come cambierà la comunicazione in Italia con proprietà o soci esteri? Arriverà anche Al Jazeera, come si ipotizza?
L’entrata nel mercato tv di operatori stranieri non può che fare bene. Allarga l’offerta dei contenuti e porta un’aria nuova in cui la concorrenza estera stimola il miglioramento, soprattutto dell'offerta pubblica.
Ogni "cervello" laureato in Italia costa intorno ai 150 mila euro alle casse pubbliche. Ci sono vantaggi nell'esportare cervelli?
I buoni prodotti esportati, che siano valvole idrauliche, tailleur, formaggi, o laureati capaci, fanno fare bella figura, accrescono la buona reputazione del Paese, anche se costano. Come per gli investimenti, esteri o nazionali, mi chiederei soprattutto come attrarre laureati stranieri. Ma se quelli italiani non considerano ospitale il nostro Paese perché dovrebbero considerarlo ospitale gli altri? Il dibattito però non riguarda più solo il mondo del lavoro, perché nel mondo globalizzato ideale di domani tutti gli studenti vorranno andare e venire dall’estero. Bisogna quindi che anche la scuola dia una valida ragione per passare di qui.
Sempre meno turisti italiani nel nostro Paese. I turisti stranieri aumentano ma l'Italia arretra nelle classifiche. Dove intervenire? Sui redditi italiani? Sulle strutture ricettive? Sugli eventi?
Il potere d’acquisto degli italiani scende e l’Italia costa, quindi risulta inevitabile la ricerca di clienti stranieri, più danarosi. Da parte mia credo che il settore abbia bisogno di una solida sistemata: già una maggiore concentrazione dell’offerta forse inciderebbe positivamente sui prezzi. Ci sono troppi soggetti sparpagliati e pochi gruppi e catene. Così tanti che è persino difficile quantificare l’offerta complessiva, fatta da tantissimi alberghi a conduzione familiare. A meno che non vogliamo puntare al turismo d’élite, fatto di alberghi singoli, piccoli, bellissimi ma carissimi, e allora addio turisti italiani…
Il sistema bancario italiano e la restrizione nella concessione del credito sono spesso additati come cause tutt’altro che secondarie del procrastinarsi della crisi. A Suo avviso, c’è una responsabilità diretta del sistema creditizio italiano?
Il credit crunch è certo un effetto della crisi e una causa del suo prolungarsi. La vera colpa delle banche italiane è stata lavorare pensando solo al breve periodo, agli asset materiali delle imprese invece che quelli immateriali e perdere il contatto col cliente, quindi perdere la capacità di valutare il merito del credito, che poi è la qualità principale richiesta a chi di mestiere presta soldi.
Daniele Lazzeri
Chairman del think tank “Il Nodo di Gordio”
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