Petrolio e benzina ai minimi. La stretta della Fed fa paura

Nella riunione di domani previsto un nuovo forte rialzo dei tassi. Ma il diesel non scende e diventa un caso

Petrolio e benzina ai minimi. La stretta della Fed fa paura

Jerome Powell è attualmente il nemico numero uno del petrolio. La politica aggressiva di rialzo dei tassi da parte della Federal Reserve, alimentando i timori di recessione, esercita infatti un'azione di compressione sulle quotazioni del greggio poiché alla contrazione economica si accompagna sempre un calo della domanda energetica. L'allarme è estensibile a livello globale, poiché Bloomberg ha calcolato come quest'anno 90 banche centrali abbiano imitato l'istituto di Washington per arginare l'onda crescente dei rincari dei prezzi.

I ribassi ieri dei prezzi dell'oro nero, con il Brent sceso del 2,7% a 88,8 dollari al barile e quello del Wti del 3% a 82,17 dollari, rendono plasticamente l'idea di come il mercato si sia ormai rassegnato a vedere ancora a lungo la banca centrale Usa in modalità falco. Anche se gli automobilisti italiani hanno la percezione di questi cali solo dal prezzo della benzina, sceso alla pompa sotto quota 1,7 euro al litro, mentre i listini del gasolio, come denuncia il Codacons, rimangono ancora elevatissimi, con il diesel che in modalità self viene venduto a 1,809 euro al litro.

L'ultimo dato sull'inflazione Usa, salita in agosto all'8,3%, e ormai dilagata in tutti i segmenti dei prezzi (a cominciare dagli alimentari), ha tolto anche le ultime speranze di una stretta monetaria circoscritta a mezzo punto. Nella riunione che si conclude domani, Eccles Building dovrebbe calcare ancora la mano con un giro di vite dello 0,75%, anche se qualcuno non esclude un intervento choc fra 100 punti base.

Quella che la Fed deve percorrere è una via a senso unico, essendo quella dei tassi l'unica arma utilizzabile. Un'altra, non impiegabile, sarebbe la riduzione drastica di un bilancio gonfiato da asset per un controvalore di 9mila sotto forma di un taglio di quasi 4mila miliardi, pari a un aumento implicito dei tassi di 450 punti base che a Wall Street risulterebbe più che indigesto. Nè, tantomeno, Powell può illudersi che l'amministrazione Biden, con il voto di mid-term ormai alle porte, attenui quelle politiche espansive che stanno allargando il buco nei conti federali. Strada quindi obbligata, seppur con l'incognita di non avere la certezza se queste azioni di restringimento delle maglie monetarie saranno in grado di debellare il carovita. In base alla formula Consumer Price index degli anni '70, l'inflazione andrebbe infatti contrastata con tassi superiori al 17%. Sono margini di manovra che, ovviamente, Powell&Soci non hanno. Già la possibilità che entro al fine dell'anno il costo del denaro sia sopra l'asticella del 4% allunga sull'America le ombre di un'imminente recessione che andrebbe a incastonarsi su un ciclo economico ancora avvelenato dal surriscaldamento dei prezzi. C'è inoltre un altro aspetto da considerare. Lo scorso anno la Fed ha incassato 122 miliardi di interessi attivi, generati dal proprio portafoglio titoli, e poi girati per la gran parte (107 miliardi) al Tesoro Usa; le spese sugli interessi sono state pari a 5,7 miliardi. Dal momento che ogni rialzo di 100 punti base dei tassi equivale a un aumento del costo degli interessi di 87 miliardi, tassi al 4% farebbero salire a 348 miliardi i costi di finanziamento.

Di conseguenza, Eccles Building si troverebbe ad affrontare una perdita vicino ai 240 miliardi e non potrà più versare un solo cent al ministero guidato da Janet Yellen.

Cifre che dimostrano come Powell si stia muovendo sul filo del rasoio e che un soft landing dell'economia non è affatto garantito.

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