La coalizione giallorossa, almeno per ora, non esiste più, ma ciò che unisce apertamente il campo progressista, diviso oggi tra l'alleanza tra Partito Democratico, Verdi e Sinistra Italiana da un lato e il Movimento Cinque Stelle tornato barricadero dall'altro è il vizio comune per le "stangate" fiscali. Lo si è visto, nei mesi scorsi, nella battaglia politica sul catasto, che perfino un autorevole esponente del Pd chiamato oggi ad essere super partes come l'ex premier Paolo Gentiloni, Commissario Europeo agli Affari Economici, ha sostenuto da Bruxelles; lo si vede oggi con la proposta di Enrico Letta di finanziare una "dote" per i giovani utilizzando come strumento di copertura un'imposta patrimoniale.
Lo si vede ad ogni livello: comunale, regionale, nazionale. Le amministrazioni di centro-sinistra, e negli anni in cui sono state presenti anche quelle grilline, nelle grandi aree di potere hanno individuato spesso nello strumento fiscale un surrogato del presunto spirito egalitario che vorrebbe animare le loro ideologie politiche. Molto spesso risoltosi, invece, nell'essere uno strumento di crescente disuguaglianza. Ironia della sorte, secondo i dati Openpolis il comune che oggigiorno riesce a incassare maggiormente dalle entrate fiscali locali, quello di Venezia governato dal sindaco di centrodestra Luigi Brugnaro, ottiene 1.405,97 euro l'anno pro capite dal prelievo fiscale pur essendo una delle città meno tassate d'Italia sul fronte locale. Uno studio Unimprese sulle aliquote Imu, Tasi, Irap e addizionale Irpef da dati tratti dall'Agenzia delle Entrate e riferito a diverse città capoluogo italiane ha visto Venezia posizionarsi nel migliore dei gruppi su tutti i fronti: il capoluogo veneto presenta a livello comunale una tassazione del 3,9% sull'Irap, lo 0,81% di Imu, lo 0,29% di Tasi e il 2,03% di addizionali Irpef.
Roma, Torino, Napoli, Genova, Bologna, Ancona e Campobasso sono invece le città che conoscono le tassazioni medie più alte. Roma e Torino sono passate nel 2021 dal controllo pentastellato a quello del Partito Democratico; nel 2019 Campobasso aveva fatto il percorso inverso; Napoli è stata guidata per anni dalla Sinistra radicale di De Magistris e ora è governata da una delle poche giunte giallorosse d'Italia; Ancona e Bologna sono storiche roccaforti "rosse". Solo Genova, tra questi comuni, dal 2017 è feudo elettorale del centrodestra, ma il mandato del sindaco Marco Bucci è stato condizionato dalla tragedia del Ponte Morandi che ha fermato molte dinamiche amministrative prima e dalla pandemia poi; solo nel luglio 2022, ottenuta la rielezione, l'amministrazione della Superba ha iniziato una sua modifica delle aliquote Irpef addizionali che redistribuisce il peso a favore delle fasce meno abbienti, aumentando l'area di esenzione da 10 a 14mila euro di reddito.
Confrontando i dati delle città con quelli di Venezia, notiamo che Torino e Napoli hanno lo 0,33% di Tasi, Napoli e Campobasso il 4,97% di Irap, Roma il 4,23% di addizionale Irpef; nelle sette città in questione la media delle aliquote Imu tocca invece l'1,06%. La Capitale, in particolare, si distingue come "regina" delle tasse: +24,5% l'aumento negli ultimi cinque anni.
Non va meglio al centrosinistra sul fronte della tassazione regionale sull'addizionale Irpef. Le regioni che presentano i dati più alti sul fronte dell'addizionale tra quelle che presentano quote progressive sono Emilia Romagna e Lazio. Un lavoratore che guadagna tra 15 e 28mila euro in Emilia pagherà l'1,93% di tasse aggiuntive, nel Lazio si arriva al 2,73%. Le regioni guidate da Stefano Bonacini e Nicola Zingaretti superano notevolmente il risultato della Lombardia (1,58%), la cui aliquota massimale peraltro è dell'1,75%, contro rispettivamente il 2,33% imposto da Bologna e il 3,33% laziale. Tra le regioni che impongono un'aliquota fissa, la Campania di Vincenzo de Luca tassa al 2,03%, il Veneto solo all'1,23%.
L'ondata di tasse arriva, in quest'ottica, fino al livello nazionale. E non va dimenticato, per quanto riguarda il ruolo giocato da Enrico Letta nella politica nazionale, che il segretario democratico fu, ai tempi del suo governo, l'unico premier dopo Mario Monti a imporre un aumento dell'Iva interiorizzando nella sua manovra di bilancio la risposta emergenziale e austeritaria delle "clausole di salvaguardia" che prevedevano un aumento automatico della tassa sul valore aggiunto al mancato raggiungimento di precise quote di risparmio di spesa pubblica. Dopo Monti, anche i governi presieduti da Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni e, da ultimo, Giuseppe Conte, hanno fatto uso delle clausole di salvaguardia Iva per far passare a Bruxelles le loro manvore, consapevoli del loro ruolo di utile bandiera da sventolare per compiacere la Commissione Europea nella piena consapevolezza di una loro successiva rimozione. Senza sanarle, Letta nel 2014 portò l’Iva ordinaria al 22%, aprendo la strada alla rottura del suo governo di coalizione.
E oggi anche la sua unica, vera proposta economica sembra essere condizionata dal "tic" dell'uso delle tasse come arma che su un quotidiano certamente non ostile ai dem come Repubblica gli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti hanno stigmatizzato, definendo non necessaria la proposta di Letta di utilizzare una patrimoniale sulle successioni per finanziare la dote giovani: "Ci sono strumenti più mirati per garantire maggiore uguaglianza delle opportunità. Se si tratta di facilitare l’accesso all’università si possono aumentare le borse di studio. Se l’idea è di permettere ai giovani di essere indipendenti, con 10.000 euro una tantum non si esce di casa. Se vogliamo aiutare i giovani a mettere su casa (non a 18 anni), meglio sussidiare i mutui: 10.000 euro comunque non convincono una banca a darti un mutuo".
Oltre a essere demagogica, la proposta rischia insomma di essere antieconomica. Come spesso accaduto per le proposte della Sinistra pro-tasse che hanno prodotto, in nome della ricerca dell'equità sociale e di bilancio, maggiori disuguaglianze e freni alla crescita.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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