Esilio, martirio o resa Sarà il Colonnello a scrivere il gran finale

Comunque vada la parola fine la scriverà il Colonnello. Resistendo, fuggendo, morendo o consegnandosi ai propri nemici. Dietro l’ombra di un Muhammar Gheddafi imprendibile e invisibile aleggia comunque il fantasma del suo omologo, di quel Saddam Hussein che otto anni fa disegnò la prima di due vite parallele.
Saddam, prima di Muhammar, si nascose in una moschea, fuggì dalla Baghdad espugnata su una Passat nera tirandosi dietro due dei propri rampolli. E, prima di Muhammar, trasformò la vittoria dell’Occidente e dei proprio nemici in una piaga sanguinosa. Muhammar temeva di seguirne la fine già in quel fatale 2003 quando accettò di consegnare a Stati Uniti e Inghilterra i suoi laboratori chimici e nucleari. Ora, di fronte all’ineluttabile, studia le mosse del suo predecessore, si prepara a ripercorrerle. Al pari di Saddam non sogna un epilogo hitleriano, non aspira a trasformarsi in un mucchietto di cenere abbandonato nel bunker espugnato. Da lì è probabilmente già scappato lasciando l’estrema difesa ad un manipolo di fidati. La sua ultima trincea, fisica e ideale, non è nella capitale, ma in quel reticolo di villaggi e possedimenti tribali chiamato Sirte. Lì è cresciuto. Da lì sogna d’impartire l’ultima lezione ai nemici. In quella tana del lupo - circondata da tribù e popolazioni pronte a tutto pur d’impedire l’egemonia ribelle - i suoi avversari hanno già trovato pane per i propri denti. Lì, a marzo, furono costretti a una rovinosa ritirata dopo essersi affacciati sulla litoranea tra Ben Jawad e la Sirte. Lì potrebbe nascere la Vandea del Colonnello. Una Vandea capace, come Falluja e il Triangolo Sunnita iracheno di dividere il paese, vanificare i sogni di unità nazionale, neutralizzare l’influenza del Consiglio di Transizione di Bengasi.
Ma calcare le orme di Saddam significa rischiarne la medesima fine. Conoscendo la conclusione della prima delle due vite parallele il Colonnello potrebbe decidere di non rischiare, di puntare direttamente a sud verso la provincia di Saba, terra ancestrale dei suoi antenati. Lì guerra, ribelli e bombe della Nato non sono mai arrivati. Da lì sarebbe facile tenere i contatti con i servizi segreti algerini, continuare a ricevere armi e munizioni. Certo per l’ex colonia di Parigi garantirgli un asilo permanente sarebbe imbarazzante. Ma un rifugio provvisorio tra le dune del Sahara non gli verrebbe negato. Da lì potrebbe studiare se scegliere l’esilio in Zimbabwe o accettare l’offerta - non molto gradita, ma sicura – dell’amico venezuelano Hugo Chavez. Certo tra le nebbie della guerra di Tripoli non esistono certezze. Una bomba su un tunnel, una mossa inattesa dei ribelli, una segnalazione della Nato potrebbero segnare il destino del rais, vanificarne la promessa di combattere fino allo stremo confermata ieri durante una conversazione telefonica con l’amico Kirsan Ilyumzhinovha, presidente russo della Federazione internazionale di scacchi.
Nell’imprevedibilità della guerra il rais libico potrebbe ritrovarsi prigioniero di un buco senza vie d’uscita, rivivere l’inglorioso epilogo del Saddam ripescato dalle viscere, sbattuto in galera e condotto al patibolo. A quel punto potrebbe scegliere la catarsi finale, la strada epica del suicidio. Ma chi l’ha mai fatto? Non Slobodan Milosevic, non il suo macellaio Ratko Mladic, non Saddam.

Alla fine tra epica e vanagloria potrebbe un’altra volta aver la meglio quest’ultima, trionfare la certezza visionaria di un Colonnello convinto di poter tener in scacco l’Occidente svelandone i quarantennali miserabili compromessi sottoscritti nel nome dell’oro nero.
Ma qualcun altro potrebbe aver già deciso per lui scrivendone il nome sulla pallottola del silenzio finale.

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