Dalla pipì al rogo del Corano la missione finisce male

In pochi mesi le intemperanze delle truppe distruggono lo sforzo di anni

Dalla pipì al rogo del Corano la missione finisce male

L’orrore. «Bisogna farsi amico l’orrore». Nel monologo finale di Apocalypse Now, l’orrore è il compagno di vita del Colonnello Kurtz, la dimensione quotidiana della guerra. In Afghanistan sta diventando anche un sintomo delle incertezze degli americani, della scarsa tensione morale con cui amministrazione e militari si muovono su quello che fu il fronte iniziale e cruciale della guerra al terrorismo.

Premettiamolo. Episodi terrificanti come quello del soldato macellaio di donne e bimbi innocenti sono il corollario di qualsiasi conflitto. L’esercito è una società su scala ridotta e si porta dietro una fisiologica percentuale di menti deboli, malate o limitate. Quelle menti già bacate subiscono deterioramenti repentini ed inarrestabili non appena si ritrovano immerse nella quotidianità di un mondo ostile e letale. Un mondo dove un soldato afghano considerato alleato può scaricarti addosso un caricatore di kalashnikov. Un mondo dove ogni giorno le zolle si trasformano in fontane di schegge e fuoco trasformando i tuoi compagni in irriconoscibili tronchi umani. Triturate da questa tenaglia di paure, ansie e immagini terrificanti le menti deboli s’annebbiano, non distinguono più bene e male, provano l’irresistibile pulsione a uccidere chiunque non porti la propria divisa. La stessa sindrome del ritorno che spinge i reduci ad uccidere i compatrioti colpevoli di non capirli si manifesta, a volte, già sul campo di battaglia. E allora assistiamo al miscuglio di orrore e follia che ieri ha pervaso i villaggi afghani di Balandi and Alkozai.

Non è una novità. Accadde a My Lay in Vietnam nel marzo di 44 anni fa. È successo nel villaggio iracheno di Haditha nel novembre 2005. Ma in Afghanistan ultimamente succede troppo spesso. A poca distanza dalla zona del massacro imperversava due anni fa la cosiddetta «squadra assassina». Nel 2010 quel quartetto di soldati squilibrati si divertì a far a pezzi a colpi di granate e mitragliatrice pesante almeno 3 innocenti civili afghani. Lo scorso gennaio un gruppetto di marines non ha trovato di meglio, invece, che mettere su internet le immagini di una pisciata di gruppo sui cadaveri di alcuni talebani uccisi in uno scontro a fuoco. Da ultimo - lo scorso 20 febbraio - il rogo di alcune copie del Corano organizzato da cinque militari statunitensi all’interno della base di Baghram.

Negli Stati Uniti, a differenza di quanto succede in paesi meno abituati alle consuetudini democratiche, tutti questi episodi, da My Lay alla strage di ieri, sono stati ampiamente documentati e indagati. E nella maggior parte dei casi si sono conclusi con la condanna dei colpevoli. In Afghanistan, dove l’obbiettivo non è uccidere tutti i talebani, ma conquistare il cuore e la mente della popolazione afghana, il sapere che qualcuno indagherà è però una magra consolazione. Il ripetersi e l’infittirsi di questi episodi, ormai al di là di una fisiologica inevitabilità, sembra il sintomo di un progressivo deterioramento della tensione morale, delle motivazioni e della disciplina dei militari statunitensi.

O almeno di quelli più deboli. All’inizio del proprio mandato Obama s’era impegnato a far proprie le strategie con cui, già nel 2008, si cercavano di raddrizzare gli errori commessi in Afghanistan dopo il 2001. Obama, non a caso, aveva spedito in Afghanistan 30mila uomini di rinforzo e s’era impegnato a trasformare la missione in uno dei principali impegni del quadriennio.

Due anni dopo, l’assillo di una mancata rielezione l’ha spinto a una brusca marcia indietro. La guerra da vincere a tutti i costi si è trasformata in un progetto di ritiro totale entro il 2014. Negli ultimi sei o sette mesi Pentagono e Casa Bianca hanno progressivamente ridimensionato le strategie messe in campo dal generale David Petraeus.

Questo clima d’inerzia strategica contribuisce inevitabilmente a ridurre le motivazioni degli ufficiali e le certezze dei soldati sul campo. Ed è quando mancano le certezze che le menti più annebbiate rischiamo di scivolare nell’orrore.

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