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Il sicario dei narcos: «Ho ucciso 300 persone e non sono pentito»

Uscirà di galera a giorni il killer del cartello di Medellin ancora fedele a Escobar: "Un mito, non un assassino: lui ne ha ammazzate solo 20"

Nell'ambiente lo chiamavano «Popeye», ma a nessuno sarebbe venuto in mente di sfotterlo, o anche solo di canzonarlo, con quel nomignolo. C'era qualcosa, nello sguardo di quel ragazzo, che sconsigliava leggerezze di alcun genere. Come nello sguardo del mostro di Rostov, Andrej Chikatilo. O in quello di Ed Gein, il «macellaio di Plainfield», che ispirò film come Psycho e Il silenzio degli innocenti.
In quel mondo di sicari, di spietati trafficanti di cocaina e di guerra per bande che fu la Bolivia degli scorsi decenni, e che oggi è il Messico dei narcotrafficanti, gli avevano affibbiato quel soprannome per fargli un complimento. Per sottolineare la forza esplosiva e il furore omicida che poteva prorompere da quel corpiciattolo anche di fronte alla più vaga provocazione. Ma che nella sua carriera avesse partecipato e coordinato circa tremila omicidi, e che avesse ammazzato con le sue mani -cioè: personalmente- 300 persone: questo forse lo aveva raccontato, prima d'ora, solo a certi suoi compagni di prigionia.

Jhon Jairo Velasquez Vasquez, si chiama. Ma un nome così non ve lo ricorderete mai. «Popeye», proprio come Braccio di Ferro, è più facile da tenere a mente. Così lo chiamava anche Pablo Escobar, il più famoso capo del «cartello di Medellin», alla cui corte Popeye servì fino a quando Escobar venne ucciso, nel 1993. A raccontare le sue gesta, e a dire che «il catalogo è questo», come un Leporello con le mani lorde di sangue è lo stesso Velasquez, alla vigilia della sua liberazione dopo 25 anni di carcere, in un'intervista a Semana, settimanale colombiano. A guardarlo oggi, imbolsito dagli anni di ozio carcerario, i capelli a spazzola e la faccia gommosa, senza zigomi, lo sguardo disertato da ogni emozione, Popeye sembra l'ombra di se stesso, dice chi l'ha conosciuto ai tempi. E anche i suoi omicidi, il numero così impressionante di morti ammazzati che scaraventa questo crudele ragioniere del crimine in cima alla classifica dei serial killer di tutti i tempi, finiscono per restituire la stessa emozione che c'è nello sguardo di chi li ha commessi. Come quando si legge di 300 sventurati morti affogati in un ferry boat che si è ribaltato nelle Filippine. Un numero troppo grosso, un fatto troppo lontano per emozionarsi davvero. Come invece accade, per esempio, quando si legge di un'intera famiglia morta in un incidente stradale a Piacenza.

«L'ultimo sopravvissuto tra i sicari» di Pablo Escobar, Jhon Jairo (chissà perché Jhon con l' «h» al posto sbagliato?) sostiene che Pablo Escobar non era il grandissimo mascalzone che pensiamo noi. Ma «un genio, forse del male, ma un genio. Per esempio: se cercavi di fregarlo, di raccontargli una bugia, se ne accorgeva all'istante, e rischiavi di pagare con la vita», racconta Jhon.
Neppure crede, Popeye, che il feroce Escobar sia stato un assassino. «Sì, avrà forse ammazzato una ventina di persone…» concede lui, dall'alto del suo alto magistero omicida.
«Bè, allora cos'era, Escobar?» gli domanda l'intervistatore. E lui, il più grande boia dell'evo moderno: «Era un leader, un grande organizzatore e un grande sequestratore».
Però siccome anche i più spietati assassini hanno un'anima (così almeno si dice) ecco venire a galla il «sentimental mood» che alberga anche in questo «Popeye» senza Olivia.

Per esempio quella volta che Escobar gli ordinò di uccidere una sua fidanzata, precedentemente legata allo stesso Escobar. «Fu uno degli episodi più dolorosi della mia vita» racconta Velasquez. «Lei era incinta di Escobar e per Pablo la famiglia era sacra. La fece abortire. La ragazza decise di vendicarsi ed entrò in contatto con la Dea americana». Che poi è l'Agenzia antidroga statunitense. A Popeye il compito di ucciderla. «Ah, ma lei non sa cosa sia uccidere una persona che si adora», frigna ora questo animale senza collare che un giorno, sempre per «lealtà» al capo, «giustiziò» pure un amico: «Aveva molto coraggio, mi chiese solo una Bibbia. Gliela diedi, poi gli ho sparato».
Scontato il carcere, Vasques dice di voler «insegnare ai giovani colombiani che non c'è alcuna ragione per vendere la propria vita per una Mercedes o per le donne, come ho fatto invece io». Parole di pentimento, zero.

Solo questa acuta riflessione, maturata in 25 anni di meditazioni, per così dire. L'unica cosa che non si capisce, di questa storia, è perché rimettere in circolazione un tipo che avrebbe figurato meglio a far la calza per sempre in un manicomio criminale.

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