Il soldato italiano in trincea fermo, altruista e silenzioso

Sono quattromila i nostri militari in Afghanistan, quasi tutti del Sud Grandi professionisti, non corpi d’élite. E nessuna paga vale una vita

Il soldato italiano in trincea  fermo, altruista e silenzioso

Si chiama Robert Bales il sergente (nella foto) considerato l’unico responsabile della strage compiuta la settimana scorsa a Kandahar. Le autorità militari americane hanno fornito l’identità del militare dopo aver completato il suo trasferimento nella prigione militare di Fort Leavenworth, in Kansas. Ora il tiratore scelto, che prima di essere inviato in Afghanistan aveva già compiuto tre missioni in Iraq dove era rimasto ferito, sarà incriminato dalla magistratura militare per aver ucciso 16 civili afghani, tra i quali nove bambini, e di aver tentato di dare fuoco ai loro corpi prima di reintrare nella sua base e consegnarsi ai suoi superiori. Il ministro della Difesa, Leon Panetta, ha detto che Bales rischia la pena di morte. Una follia che la guerra può scatenare ma non giustificare. I nostri soldati in prima linea per esempio, hanno invece fatto dell’umanità la loro arma principale. E noi vi raccontiamo come.

La paura, l’orrore, la solitu­dine sconfinata di un pae­se spietat­o e inospitale co­me solo l’Afghanistan in guerra sa essere. C’è anche questo dietro la follia assassina di Robert Bates il 28enne sergente dell’esercito americano accusato di aver mas­sacrato 16 civili afghani. Eppure in quel limbo sospeso fra guerra, orrore e follia vivono anche i 4mi­la soldati italiani chiamati, ogni sei mesi, a prestar servizio in Af­ghanistan. «Non puoi mai distrarti. Le trap­pole esplosive sono ovunque e sono sem­pre più sofisticate» spiegava la scorsa esta­te il 31enne capitano Emanuele Malberti co­mandante della com­pagnia Giaguari dell’8 reggimento paracadu­tisti dispiegata a Bakwa. Pochi giorni prima il caporal mag­giore Roberto Marchi­ni, uno dei suoi uomi­ni migliori, era saltato su una trappola esplo­siva.

Eppure il capita­no e la compagnia «Giaguari» continuavano le mis­sioni di sostegno alla popolazio­ne­e le distribuzioni di aiuti nei vil­laggi da cui era arrivata la trappo­la mortale. «Da quei villaggi ci guardano, ci studiano. Fanno se­gnali di fumo, mandano staffette in moto, seguono i nostri movi­menti. Per restare vivo - spiegava il capitano- devi sempre immagi­nare le loro due mosse successi­ve. E in ogni caso prima o poi ti fre­gano lo stesso». Il capitano Mal­berti e i suoi uomini sono paraca­dutisti della Brigata Folgore, una delle unità meglio addestrate del­­le nostre forze armate, ma non so­no uomini eccezionali. Non sono soldati d’elite, uomi­ni dei corpi speciali selezionati per le missioni più estreme e tem­prati alle prove più dure.

Come il 95 per cento dei militari che ope­ran­o in Afghanistan sono sempli­cemente soldati professionisti, ra­gazzi che terminati gli studi han­no scelto la professione del milita­re. Da quando è scomparsa la leva obbligatoria l’Italia meridionale è diventata la grande levatrice del­le nostre forze armate con una percentuale di reclutamenti in­torno al 65 per cento. Il nord è pre­cipitato all’8 per cento lasciando a Sardegna, Puglia, Campania e Sicilia il compito di fornire persi­no gli effettivi delle truppe alpine. Nei paracadutisti non è diverso. All’interno della compagnia Gia­guari il capitano Malberti s’è gua­dagnato il soprannome di «longo­bardo » proprio per quelle origini brianzole diventate una rarità. Lui in cambio chiama «Regno del­le due Sicilie» il gruppetto di suoi uomini originari di Sicilia, Puglie e Campania. Dietro la comune origine meri­dio­nale di tanti militari c’è sicura­mente una scelta iniziale dettata dalla ricerca del posto fisso e dello stipendio sicuro.

A quello stipen­dio s’aggiungono 144 euro d’in­dennità al giorno per la missione in Afghanistan e 177 euro in più per quella in Libano, dove gli ex­tra sono pagati dalle Nazioni Uni­te. Indennità di missione e paga base consentono in sei mesi al­l’estero d’accantonare cifre im­portanti per un ventenne. Cifre in­dispensabili per pagare la prima automobile, versare la prima rata del mutuo o saldare i costi del ma­trimonio. Ma non certo a giustifi­care il rischio e la fatiche del te­atro afghano. E non bastano certo a spiega­re le 49 vite sa­crificate in una missione di­ventata la più sanguinosa dalla fine della seconda guer­ra mondiale. Per capirlo ba­sta scendere nel catino ro­vente di Bakwa.

Lì d’estate il termometro balla intor­no ai 52 gradi e ogni passo può es­sere fatale. Lì tra i sassi e la sabbia arroventati dal sole dello scorso agosto, il caporal maggiore Paolo di Maio e Mario Porto spadellava­no il metal detector, ne ascoltava­no gli echi nell’auricolare mentre la colonna attendeva incolonna­ta a distanza. «Il terreno è zeppo di metallo, non distinguo gli im­pulsi » grida Mario mentre Paolo indica le zone ancora da controlla­re. Sembrano due ballerini sul filo del rasoio, in bilico tra incoscien­za e spirito di sacrificio. Eppure nessuno fiata, nessuno si lamen­ta. Neppure il primo caporal mag­giore Marianna di Carlo. É l’unica «giaguara» della compagnia. É una 25enne bionda d’assalto,con il seno prigioniero del giubbotto antiproiettile e i muscoli cresciuti sotto lo zaino. Arriva dalla Basili­cata, sognava l’Afghanistan e la di­visa da quando aveva 15 anni, ma non si sarebbe mai immaginata d’assistere impotente alla morte di un collega e di un amico. Il 12 luglio Marianna è tre mez­zi dietro a quello di Roberto, l’el­metto calato, il giubbotto troppo stretto, il sole che le brucia la te­sta. La prima trappola esplosiva non è l’unica.Ma Roberto ha l’oc­chio fino, conosce il proprio lavo­ro. Circoscrive la prima. Lavora sulla seconda. Segnala qual­cos’altro di sospetto. Poi quel pas­so, quella vampata, il tremore del­la terra nelle budella, il boato nel­­le orecchie, secondi di silenzio fra­stornato, mentre il mondo gira e tu sei immobile, paralizzato, diso­rientato. E Roberto non c’è più.

«Sono lì a poche decine di metri, vedo tutto, capisco tutto e conti­nuo a vederlo. Un’immagine del genere- spiega Marianna- non la puoi cancellare, non la puoi butta­re nel cestino. Te la porti dietro, ti resta dentro. Per sempre. E minac­cia le tue certezze. Non è facile ve­nirne fuori. Lo puoi fare solo se la squadra resta unita, se tutti conti­nuano a starti accanto». Dopo scosse come quelle spet­ta al comandante tener in piedi i propri uomini. «Devi restar vici­no a tutti, aiutarli a fare gruppo. Anche il soldato meglio addestra­to - spiegava Emanuele Malberti – è sempre un essere umano. Se lo lasci solo pensa, riflette, s’ango­scia si ritrova prigioniero dei brut­ti pensieri.

Se qualcuno ti sta vici­no come sappiamo fare noi italia­ni, come sanno fare soprattutto i miei soldati del Regno delle due Sicilie, allora dubbi e paure si tra­sforma in compagni di viaggio. Ti aiutano a tenere gli occhi aperti, a vedere i rischi, a non dare nulla per scontato».

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