Se qualcuno - per farci entrare in casa sua - ci chiedesse la password della nostra posta elettronica, lo manderemmo al diavolo. I più rognosi potrebbero addirittura procedere con una denuncia per attentato alla privacy. Gli Stati, però, si fanno le leggi e se le cantano: se vuoi entrare dammi la password, se no vattene pure. È quanto si è stabilito in Israele, nel caso di «sospetti reali» su qualche aspirante visitatore: e pazienza se nella posta elettronica hai soltanto lettere d'amore, potrebbero celare il codice di chi sa quale cellula terroristica. Si tratta di una violazione insopportabile della libertà individuale, anche se per buoni motivi, anche se a metterla in atto è uno Stato dove i pericoli di terrorismo sono seri e quotidiani, anche se si tratta di una misura apparentemente inutile: è chiaro che, se io sono un terrorista, pulirò la mia posta prima di atterrare a Tel Aviv, o ti darò quella di un indirizzo innocente. I servizi segreti e i legislatori israeliani lo sanno benissimo e forse hanno escogitato un meccanismo simile a quello per cui, entrando negli Stati Uniti, dichiari di non essere iscritto a un partito comunista o di non essere stato nazista: nessuno, negli Usa, si aspetta che tu ti autodenunci, ma il giorno che dovessi incappare in qualche guaio, una dichiarazione falsa diventerebbe un'aggravante da pagare con l'espulsione perpetua o con anni e anni di galera. Il vero problema, dunque, è fino a che punto si può rinunciare alla riservatezza, quindi alla libertà, in favore della sicurezza.
È sbagliato pensare che niente di simile potrebbe capitare anche da noi: chi avrebbe pensato, anni fa di non poter portare una bottiglietta d'acqua su un aereo? Allora, per cominciare, si eviti, possibilmente, di andare dove - a torto o a ragione, per sicurezza o per politica - puoi venire trattato, a priori, come un criminale.www.giordanobrunoguerri.it
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