"La Francia lo dimostra: è fallito il modello delle porte aperte"

"È inutile girarci intorno - spiega Nicola Molteni, sottosegretario leghista all'Interno - quello che accade in Francia è la certificazione di un fallimento, quello dell'immigrazione incontrollata, ma anche un monito per l'Europa"

Nicola Molteni
Nicola Molteni
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La preoccupazione c'è: «È inutile girarci intorno - spiega Nicola Molteni, sottosegretario leghista all'Interno - quello che accade in Francia è la certificazione di un fallimento, quello dell'immigrazione incontrollata, ma anche un monito per l'Europa».

Da Parigi il contagio potrebbe arrivare in Italia?

«La situazione è obiettivamente diversa, ma non dobbiamo coltivare pie illusioni: se non si gestisce il fenomeno migratorio, alla fine ogni Paese europeo si troverà in grande difficoltà. E accadranno fatti come quelli che stiamo vedendo in Francia». C'era già stata una grande rivolta nel 2005 a Parigi.

È cambiato qualcosa da allora?

«La situazione è peggiorata: nel 2005 erano in fiamme le banlieue della periferia di Parigi, oggi vediamo che i disordini si estendono purtroppo a tutto il Paese. Fra l'altro dal 2015 la Francia ha di fatto sospeso unilateralmente Schengen e ci rimanda indietro ogni anno grossomodo 30000 richiedenti asilo. Ma il freno è stato schiacciato quando ormai era troppo tardi».

Cosa non ha funzionato?

«Mi pare che sia entrato profondamente in crisi il modello progressista delle porte aperte: l'idea che l'accoglienza fosse quasi automatica, che non ci sarebbero stati scontri e saccheggi. È andato tutto storto».

Il multiculturalismo ha generato la ghettizzazione?

«Si, l'integrazione è fallita. È fallito il modello basato sui diritti, peraltro teorici, e non sui doveri. Le periferie sono diventate una terra di nessuno, regno dell'illegalità, del fanatismo, della miseria e del rancore sociale. Per questo quel che accade a Parigi o Lione deve interrogare Roma, Berlino e tutte le altre capitali».

Il vertice europeo di Bruxelles si e concluso con un'intesa sulla Tunisia. È soddisfatto?

«Si, per due ragioni. La prima è che abbiamo orientato in questi otto mesi l'agenda europea, imponendo di fatto una sensibilità nuova. Ci saranno sempre divisioni, è inevitabile, sulle redistribuzioni interne o secondarie dei richiedenti asilo, ma ormai si respira un clima nuovo generale e si afferma finalmente l'idea che l'Europa, l'Europa tutta intera, deve difendere i propri confini e deve fermare le partenze sulle coste dell'Africa. Il tema vero non è quanti migranti collocare in Francia e quanti in Olanda o Italia, ma come controllare i flussi del Mediterraneo. Insomma, quanti uomini possono partire dalla Libia, dalla Tunisia o dall'Egitto».

La seconda questione?

«Discende dalla precedente. Se regoliamo le partenze, poi possiamo stabilire accordi con i singoli Paesi ed eccoci al modello di partenariato con la Tunisia».

Lei ci crede?

«Dobbiamo fare di tutto per sostenere la Tunisia e le autorità di quel Paese. Anche qui non è un problema dell'Italia ma di tutta l'Europa. Quest'anno sono sbarcate finora in Italia 65.000 persone e di queste 34.000 provenivano dalla Tunisia, un numero elevatissimo che supera quelle arrivate in tutto il 2021. Se la Tunisia non dovesse reggere e dovesse collassare, allora avremmo uno scenario ancora più drammatico. Dunque, dobbiamo dare una mano alla Tunisia, dobbiamo sbloccare i 2 miliardi del Fondo monetario internazionale, dobbiamo favorire la cooperazione fra le due sponde del Mediterraneo in tutti i modi. E lo stesso meccanismo auspichiamo con la Libia: ci impegniamo per stabilizzare la Libia, cercando una ricomposizione del mosaico nazionale».

Insomma, c'è molto da fare e intanto la Francia brucia.

«Ripeto: l'Italia e l'Europa devono cercare di gestire, pianificare, guidare l'ondata migratoria, sbarrando le porte ai trafficanti di esseri umani e spingendo invece l'immigrazione qualificata, specializzata, legale, con case e contratti di lavoro. È quello che prevediamo nel decreto Cutro che mi pare nessuno abbia letto: se un Paese ferma i barconi, noi lo premiamo aprendo un corridoio alla manodopera formata da inserire nel nostro tessuto produttivo».

D'accordo, ma i nostri quartieri più degradati possono esplodere come quelli delle città francesi?

«Stiamo lavorando sulle stazioni delle grandi città, come Roma Termini e Milano Centrale, per trasformale in luoghi virtuosi e non in calamite di delinquenza e tensione sociale. Allo stesso modo ragioniamo sulle aree più disagiati delle nostre metropoli». L'ordine pubblico da solo non può bastare.

L'integrazione?

«In Francia vediamo banlieue sottratte al controllo della legge, in Italia non è così, ma dobbiamo vigilare. Dobbiamo puntare sul lavoro e sull'equilibrio fra diritti e doveri.

Non è che tu vieni in Italia e fai come ti pare: c'è un'identità da rispettare. Attenzione: molti reati vengono commessi da giovani, figli di immigrati ma nati in Italia. Qualcosa si è rotto nella seconda generazione e il nostro compito è ricucire questa inquietante frattura»

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