Ecco perché Malagodi merita una via a Genova

(...) era molto felice di venire qui, a parlare ai liberali genovesi che lo accoglievano sempre con simpatia. Ai suoi comizi, indimenticabili, mi portava mio padre, Giorgio, allora rappresentante del Pli in Comune e segretario provinciale, poi regionale del partito»: parla così mentre sfoglia l'album, ricco di fotografie che sono altrettante storie pubbliche e private, l'onorevole Roberto Cassinelli. E rivive l'epoca in cui «si andava a sentire il leader come si va ad ascoltare uno di famiglia, che ti fa capire quello che non sai, e ti dà buoni consigli. Malagodi era così, e anche se mio padre o Mario Bianchi, lui futuro segretario genovese del Pli, mi tenevano sulle ginocchia, posso dire che molto, di quei giorni e di quello statista insigne, mi è rimasto».
Altra politica e altri politici. Vale la pena ricordarli?
«È più che opportuno riaccendere le luci su personaggi e personalità della Prima Repubblica, come Malagodi, ma non solo. Farebbe bene a tutti, in questi tempi di crisi, tornare a ispirarsi a quei valori, per spegnere il vento dell'antipolitica».
Ha un senso dedicare una via o una piazza di Genova a Malagodi, secondo la proposta lanciata da Beppe Damasio di cui abbiamo scritto su queste pagine?
«Certo che ha un senso, e molto profondo. Sono d'accordissimo con Damasio. Se ci penso, l'allora segretario nazionale del Pli...».
Ecco, parliamo un po' del Malagodi genovese.
«Fine anni Sessanta. I liberali sfiorarono alle Comunali il 10 per cento. E Malagodi riscuoteva un consenso molto diffuso».
Merito anche dell'aplomb britannico?
«Nella nostra città era apprezzato anche per questo. Non era un estroverso, ma fuori dell'ufficialità se ne apprezzava l'arguzia. Inglese in tutti i sensi, non solo perché lui era nato a Londra».
Dopo il comizio, lo testimoniano le foto, si fermava a cena.
«Accettava, ma diceva: solo un frutto».
Poi, però, non si fermava lì.
«Dicevano che non fosse un buongustaio, e invece gli piaceva la cucina genovese. E poi, non dimentichiamo che era un esperto di vini, come produttore».
Si definiva, celiando, un agricoltore.
«La sua tenuta, L'Aiola, in Chianti, produceva un vino eccellente, e un'ottima grappa. Apprezzava tutt'e due, ma con moderazione».
Altre foto: accanto a lui, sul palco e a tavola, c'è un pezzo di storia del Pli.
«L'elenco è lungo. Innanzi tutto, i parlamentari: Luigi Durand de la Penne, Giuseppe Rovere, Andrea D'Andrea, Francesco Perri. Ma già si distinguevano Alfredo Biondi, Gustavo Gamalero, Ernesto Bruno Valenziano, tutti e tre avvocati, l'illustre medico Cesare Blondet, il professor Aldo Scotto, preside di Economia e commercio».
... e Giorgio Cassinelli, anch'egli avvocato...
«Ricordo anche Giorgio Ancona, agente di cambio, il costruttore Attilio Viziano, l'imprenditore Franco Baffigi, il direttore del Secolo XIX Umberto Vittorio Cavassa, l'avvocato Francesco Liconti, Giancarlo Raimondi e Umberto Zerbi, questi ultimi tre della componente Presenza Liberale».
Erano rappresentate praticamente tutte le categorie di professionisti e imprenditori.
«Era questo l'ambiente liberale, ricco di passione politica e voglia di partecipare, che accoglieva Malagodi a Genova. Dove, comunque, era valutato anche dai cittadini che ne apprezzavano la chiarezza, il rigore, la logicità dell'esposizione».
Dai comizi genovesi ai consessi internazionali.
«Ricordo che a Bruxelles, da ministro del Tesoro, spiegò benissimo un provvedimento in italiano, poi si espresse altrettanto bene in inglese, si rivolse con disinvoltura ai francesi nella loro lingua, e concluse intrattenendo a lungo i tedeschi. Ovviamente, parlando in tedesco!».


Una statura culturale, politica ed economica che non si ritrova in molti rappresentanti attuali delle istituzioni?
«Ma oltre la cultura, Malagodi aveva un forte senso dello Stato. È proprio quello che ci vorrebbe, oggi, da parte di tutti».

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