Francesco Guccini, il "cantapensiero", il "maestrone" come lo chiamano gli amici, lascia la sua Pàvana - il borgo ai confini tra Emilia e Toscana dove s’è trasferito bambino, nel 1940, per sfuggire alla guerra e dove c’è ancora lo storico mulino avito ritratto sulla copertina di Radici - solo per qualche concerto-evento come quello di domani al Forum, dove lo attendono almeno 12mila fedelissimi fan. "Son loro che mi danno l’energia per continuare - dice Guccini - prima di salire sul palco mi disco sempre "non ho voglia, quasi quasi vado al cinema", poi vedo il mio pubblico e mi scateno".
A 70 anni lei ha un pubblico trasversale come pochi altri.
"Anche i giovani mi seguono, per fortuna non tutti sono attratti dalle diavolerie elettroniche ma amano ancora il concerto tradizionale con chitarra acustica e un po’ di battute".
E il tradizionale fiasco di vino.
"Ora sul palco bevo meno, ma il vino è stato molto importante per me e per la creazione dei miei personaggi. Non sono un alcolizzato, ma ci ho dato dentro in nottate epiche a Bologna all’Osteria delle Dame e in altri luoghi che non ci sono più. Che tristezza, le osterie sono sparite; ci sono gli American bar o se va bene le enoteche, che sono boutique del vino, ma l’osteria era un simbolo di cultura popolare. I giovani non sanno cosa perdono".
Infatti i suoi ubriachi sono disperati ma ricchi di umanità.
"Si, e molti di loro vengono dalla vita reale. Il frate dell’omonimo brano abitava a Pàvana, prendeva certe sbronze e cacciava certe balle. Ha fatto di tutto, persino il piastrellista. Per farle capire come è cambiato il mondo le dirò che una volta l’ho visto bussare, a notte fonda, da una prostituta del paese e dirle in dialetto: "dài apri, ti ho portato quella mortadella che ti piace tanto". In un mondo di corruzione come quello di oggi una cosa del genere fa sorridere".
Da un posto isolato come Pàvana è difficile emergere e trovare riferimenti culturali.
"Ma c’era la radio, così m’innamorai della musica e mi feci cotruire una chitarra da un artigiano di Porretta Terme. Iniziai a suonare una sorta di cabaret alla francese a metà strada tra Brel e Brassens, cioè un po’ satirico e un po’ serioso, poi passai al beat".
E quindi si trasferì a Modena: "piccola città bastardo posto" come lei canta.
"A Modena ho ricordi contrastanti. Lì ho conosciuto Bonvi, ho suonato il r’n’r nelle balere ma non era il mio ambiente, cominciavo a intravedere la strada del cantautore e me ne andai presto, anche se gli esordi non furono assolutamente incoraggianti".
Cioè?
"Andai a Milano a incidere in uno studio che si chiamava la Basilica, una chiesa sconsacrata. Cantai Auschwitz e un vecchio tecnico del suono col camice bianco - presto sarebbero arrivati quelli con le camicie ai fiori e i capelli lunghi - mi disse: 'lei deprime tutti, cambi mestiere' ".
E invece?
"Cominciai a scrivere canzoni ma non avevo idea di cosa fare, tanto che non m’iscrissi neppure alla Siae. Mi iscrisse in seguito un amico a mia insaputa e il primo brano da cui guadagnai dei soldi fu Dio è morto".
La sua "Locomotiva" è un simbolo anarchico, lei oggi come la pensa?
"Anarchia è un modo istintivo di vivere le cose. Certo che oggi i Bakunin sono un po’ fuori dal tempo. Io scrissi La locomotiva basandomi sulle canzoni di Pietro Gori e su un episodio realmente vissuto tratto dal libro "30 anni di officina".
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